Storia di un’eccellenza italiana nel mondo: Sua Maestà la Pizza

Quella classica è rotonda, ma può essere anche di forma rettangolare, a metro, tagliata a spicchi o a quadri. Stiamo parlando di Sua Maestà la Pizza. Apprezzata da tutti, grandi e piccini, italiani e stranieri, è il piatto simbolo della cucina italiana e della tradizione napoletana. Per dirla con le parole del giornalista amalfitano Gaetano Afeltra, “la vera pizza è alimento, simbolo e rito. Alimento povero e nobile. Disco festoso di pasta, colorato di rosso. Ma è anche qualcosa di più di un impasto di acqua e farina, condito con olio e pomodoro e cotto al forno a legna. La pizza si fa non si cucina. Nasce povera. Si fa con le mani e con la sola abilità delle palme”.

La pizza napoletana, quindi, è soprattutto un’arte. E proprio l’arte del pizzaiolo napoletano – e di conseguenza la pizza stessa – è stata non molto tempo fa nominata Patrimonio Immateriale dell’Umanità da parte dell’Unesco, che ha così giustificato questa decisione: “il know-how culinario legato alla produzione della pizza, che comprende gesti, canzoni, espressioni visuali, gergo locale, capacità di maneggiare l’impasto della pizza, esibirsi e condividere è un indiscutibile patrimonio culturale. I pizzaiuoli e i loro ospiti si impegnano in un rito sociale, il cui bancone e il forno fungono da «palcoscenico» durante il processo di produzione della pizza. Ciò si verifica in un’atmosfera conviviale che comporta scambi costanti con gli ospiti. Partendo dai quartieri poveri di Napoli, la tradizione culinaria si è profondamente radicata nella vita quotidiana della comunità. Per molti giovani praticanti, diventare Pizzaiuolo rappresenta anche un modo per evitare la marginalità sociale”. Un giusto riconoscimento dopo una storia millenaria a un prodotto influenzato fortemente dalla sua terra natìa: Napoli e la Campania.

Le sue origini sono legate alla storia del pane. Descrivere la lunghissima storia della panificazione richiederebbe pagine e pagine, per cui ci limiteremo a riportare solo gli avvenimenti più importanti che hanno portato la pizza napoletana a essere amata ovunque. Già 10.000 anni fa con la nascita dell’agricoltura, nel Neolitico, i nostri antenati con i cereali coltivati cucinavano su pietra una sorta di polenta. Cinquemila anni dopo, tracce storiche ci dicono che i Nuraghi in Sardegna avevano trovato un modo per far lievitare un impasto composto da acqua e farina. Anche gli Egizi capirono che l’impasto, se non cotto immediatamente, dapprima cresceva e poi deperiva fino a divenire immangiabile. Il pane si diffuse e arrivò anche nell’antica Roma, dove si cominciò a impastare farina di frumento per creare una focaccia per la prima volta rotonda.

In tutta Europa e nel mondo, quindi, si diffusero tipi di pane che sono sopravvissuti fino ad oggi: in Grecia c’era la pita, nella zona della Romagna nacque la piadina, e poi la coca in Catalogna, il carasau in Sardegna, ma anche la paratha e il naan in Asia, il rieska in Finlandia e la flammkuchen in Alsazia.

Prima di arrivare all’epoca borbonica, periodo in cui ufficialmente nacque la pizza napoletana, alcuni documenti hanno testimoniato la presenza di particolari focacce. Nel 997 d.C. nel Codex diplomaticus cajetanus, raccolta di documenti storici che riguardavano il Ducato di Gaeta, viene chiamata “piza” una focaccia, e addirittura in un contratto di affitto era previsto il pagamento, oltre che con danaro, anche con dodici di queste focacce. La focaccia, antenata della pizza, è presente anche in altri documenti come la “Descrizione dei luoghi antichi di Napoli” di Benedetto di Falco (1535, qui viene detto che la “focaccia, in napoletano è detta pizza”), nell'”Opera” di Bartolomeo Scappi (1570), cuoco di Papa Pio V, e nel “Racconto dei racconti” di Giovan Battista Basile (nel Seicento).

Proprio nel periodo tra Cinque e Seicento ci fu un’altra antenata della pizza napoletana, la mastunicola, il cui ingrediente principale era il basilico. Vennero create, poi, altre varianti: una di queste era con acciughe, mozzarella e bianchetti napoletani (i “cicinielli”); un’altra era ripiegata su se stessa e mangiata a portafoglio; un’altra ancora era un calzone (l’impasto ripiegato su se stesso e, al suo interno, c’era il condimento). Il matrimonio, però, tra l’impasto e il pomodoro, come abbiamo detto, avvenne solo nel Settecento, nell’era borbonica, quando cominciò l’importazione di questa pianta dal Perù. La pizza, divenuta subito popolare tra i più poveri, per essere apprezzata anche dalla nobiltà bisognò aspettare Ferdinando I di Borbone, che di nascosto andava per le botteghe (allora non esistevano ancora le pizzerie: la prima, Port’Alba, nacque solo nel 1830) a degustare la pizza napoletana. La fece assaggiare a Maria Carolina d’Austria, sua moglie, e tentò di farla inserire nei menu di corte.

Bisognerà però attendere il 1889 per veder nascere la pizza più celebre: la margherita. In quell’anno il re d’Italia Umberto I insieme con sua moglie, la regina Margherita di Savoia, erano a Napoli in visita. Il pizzaiolo Raffaele Esposito preparò per loro tre tipi di pizza: la Mastunicola, la Marinara (chiamata oggi in alcuni casi anche napoletana, con pomodoro, origano, aglio e olio) e una pizza con pomodoro, mozzarella e basilico, i cui colori richiamavano la bandiera italiana. La regina Margherita fu colpita dall’omaggio ai colori della bandiera nazionale di quest’ultima pizza e decise di scrivere al pizzaiolo un messaggio di ringraziamento. Raffaele Esposito decise così di dedicare questa pizza proprio alla regina d’Italia, chiamandola “margherita”.

Agli inizi del Novecento le pizzerie, presenti fino ad allora solo a Napoli, crebbero in maniera esponenziale e si diffusero dapprima nel sud Italia, poi al Nord e poi in Europa e nel mondo. Oggi il successo della pizza napoletana è indiscusso: il giro d’affari di questo prodotto supera i 60 miliardi di euro l’anno. Solo in Italia sono presenti oltre 42.000 pizzerie, ma non esiste luogo al mondo dove non si possa mangiare la pizza. Ne esistono di ogni tipo: dalla celebre margherita a quella ai quattro formaggi, da quella con broccoli e salsiccia a quella ai frutti di mare. Con l’esportazione di questo prodotto, la pizza ha subìto contaminazioni di culture e tradizioni culinarie estere. Sono nate così altre varietà, in molti casi che si discostano totalmente dall’originale pizza napoletana. Basti pensare alla margherita che gli statunitensi hanno preferito condire con l’ananas, tanto amata oltre oceano quanto odiata (e a buon ragione!) da noi. Ma i sapori della vera pizza, quella originale, quella napoletana, preparata secondo tradizione, può essere degustata solo al Sud, nella terra dov’è nata, in Campania, a Napoli. – Danilo Ruffo

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