La mozzarella di bufala campana, un patrimonio da tutelare

E’ uno dei prodotti agroalimentari italiani d’eccellenza. Famosa in tutto il mondo, la mozzarella di bufala, quella vera, è nata in Campania, tanto che nel 1981 è stato fondato il Consorzio Tutela Mozzarella di Bufala Campana, organismo che da sempre si batte per la sua difesa e grazie al quale ha ottenuto nel 1993 la Denominazione di Origine Controllata (D.O.C.) e, tre anni più tardi, la Denominazione di Origine Protetta (D.O.P.). Chiamare la mozzarella “formaggio fresco” o ancora più semplicemente “latticino” è diminutivo. Perché la mozzarella di bufala campana è un qualcosa di unico al mondo. Così come previsto dalla normativa D.O.P., infatti, questo alimento può essere prodotto solo in Campania, nelle province di Caserta e di Salerno, in alcuni comuni delle province di Benevento e di Napoli, in alcune zone del Lazio (province di Latina, Frosinone e Roma), in Puglia (alcuni comuni della provincia di Foggia) e in Molise (comune di Venafro). Ma non solo. La mozzarella di bufala deve possedere anche altre caratteristiche, come avere un colore bianco perla, una superficie liscia e lucente e una crosta inferiore a un millimetro. Quando la si taglia deve fuoriuscire il latte. In fase di masticazione, poi, la mozzarella deve avere una consistenza elastica, la sua densità deve essere persistente, il profumo deve essere intenso: si deve sentire la freschezza del latte.

Di un formaggio riconducibile alla mozzarella ne parlava già Plinio il Vecchio, in epoca Romana, nella sua Naturalis Historia (scritto risalente al 77-78 d.C.), in cui viene nominato il laudatissimum caseum del Campo Cedicio, una zona riconducibile all’attuale città di Metaponto e al fiume Bradano. Si trattava certamente, in questo caso, di una mozzarella prodotta con latte vaccino. I bufali, infatti, non erano all’epoca ancora stati introdotti nella Penisola. Per poter parlare di nascita della mozzarella di bufala, quindi, bisogna attendere il momento in cui i bufali – e le bufale – arrivarono in Italia. Esistono tre ipotesi a riguardo. Alcuni resti fossili ritrovati nel Lazio e nell’isola di Pianosa e risalenti al Periodo Neozoico fanno propendere per un’origine autoctona del bufalo italiano. Secondo un’altra teoria, invece, furono i Longobardi a introdurre questo animale in Italia. L’ipotesi più probabile, però, sembra essere quella secondo cui furono gli Arabi a introdurre i bufali in Sicilia e successivamente i re Normanni a portarli in Campania. Alcuni documenti testimoniano la presenza dei bufali in Italia già nel XII secolo d.C., quando compare un documento di Campanile Castaldo in cui si parla dei monaci del monastero di San Lorenzo a Capua, che offrivano ai pellegrini una “mozza” (o “provatura”), ovvero un formaggio prodotto con latte di bufala. In quel periodo il termine “mozzarella” (che deriva da “mozzare”, il gesto che ogni casaro fa per produrla quando taglia manualmente la pasta filata) non esisteva ancora: si utilizzavano termini quali “provaturo”, “recocta”, “casicaballus” o “butyrus”.

La prima volta in cui comparve il termine “mozzarella”, infatti, fu solo nel 1570, quando Bartolomeo Scappi, cuoco papale dell’epoca, parlò di “butirro fresco, ricotte fiorite, mozzarelle fresche et neve di latte”. La mozzarella cominciò a diffondersi anche al di fuori delle sue zone di produzione solo nel ‘700, in epoca borbonica, quando il Re fece costruire un allevamento di bufale presso la Tenuta Reale di Carditello, considerata il primo caseificio della storia. Nacque così una vera e propria industria casearia, con aziende quali la “Reale Industria della Pagliata delle Bufale” e, a Capodimonte, la “Vaccheria Reale”, un caseificio dove venivano prodotte mozzarelle sia con latte di bufala che con latte vaccino. Questo fu un periodo di splendore per la produzione di questo prodotto. Nacquero caseifici – con relativi allevamenti bufalini – nelle zone in cui ancora oggi viene prodotta la mozzarella: Caserta, Napoli, Salerno, Battipaglia, Paestum, il basso Lazio, la provincia di Foggia e parte del Molise. Lo stesso Goethe, nel suo “Viaggio in Italia”, racconta di essere passato all’epoca per Paestum “attraversando canali e ruscelli e incontrando bufali dall’aspetto di ippopotami e dagli occhi iniettati di sangue”. Nel 1800 la produzione di mozzarella di bufala diminuì drasticamente, insieme con il numero dei capi bufalini. Solo nei giorni nostri, grazie a imprenditori coraggiosi e alla nascita di un Consorzio per la tutela della mozzarella di bufala, questo alimento è tornato in voga e ha raggiunto le tavole di tutto il mondo.

Presente nella celebre pizza margherita e in numerosi altri piatti della tradizione italiana, o degustata semplicemente da sola, magari con un filo d’olio extravergine d’oliva (ovviamente italiano), un po’ di basilico, un pomodoro o qualche fetta di prosciutto crudo (anche questi rigorosamente italiani), la mozzarella di bufala campana oggi è un orgoglio nazionale, ma soprattutto un vanto e un’opportunità per una terra, il Sud Italia, purtroppo ancora poco sviluppata. Un territorio che in molti abbandonano in cerca di lavoro emigrando al Nord o addirittura all’estero, dove però i sapori della terra natale sono ben diversi. Il Mezzogiorno, così come l’Italia intera, offre da sempre prodotti di eccellenza. Soprattutto quelli agroalimentari, che proprio per la loro bontà e la loro genuinità spesso vengono contraffatti all’estero. La mozzarella di bufala campana è uno di questi. Un patrimonio di tutti gli italiani che va tutelato per poter essere degustato, lentamente, sentendo ogni suo sapore, a partire dal latte che, in fase di masticazione, deve fuoriuscire dalla pasta filata, diffondersi in ogni angolo della bocca e solleticare ogni papilla gustativa. – Danilo Ruffo

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