Quando l’alter ego interroga il suo creatore: un’analisi dell’intervista tra Henry Bech e John Updike

Le complessità dell’identità e del mestiere di scrittore sono state affrontate con  arguzia da John Updike (1932-2009) in un articolo intitolato “Questions of character: there’s no ego as wounded as a wounded alter ego”. Questo pezzo non è una semplice intervista, ma un brillante gioco meta-letterario in cui Henry Bech, l’alter ego letterario di Updike, intervista il suo stesso creatore, offrendo uno sguardo ironico e profondo sul rapporto tra autore e personaggio, la natura della finzione e le sfide della vita letteraria.

L’articolo si apre con la voce di Henry Bech, un “antico scrittore” che, spinto dalla sua “indebita riverenza per il New York Times”, accetta di intervistare Updike. Il viaggio di Bech verso la “solitaria tana” di Updike, a nord di Boston, è descritto con dettagli vividi e un tocco di malinconia. Il paesaggio è un “pudding scialbo di rocce e conifere, di fabbriche abbandonate e baracche di legno”, situato vicino a un “porto di seconda categoria dove Hawthorne un tempo tesseva le sue cupe stregonerie”. Questa descrizione evoca immediatamente un senso di desolazione e un legame con la storia letteraria del New England, un ambiente che contrasta nettamente con la vibrante metropoli che Bech incarna. L’atmosfera autunnale, con i suoi “acri di aceri fiammeggianti”, sa di “morbida epoca passata, di impulsi culturali un tempo vitali ora sopiti”, suggerendo un senso di declino culturale che farà da sfondo alle riflessioni successive sulla professione di scrittore.

L’arrivo di Bech a casa di Updike, descritto attraverso una citazione dal suo precedente resoconto, trova l’autore “con un aspetto così anziano e infastidito come i suoi vicini”. Tuttavia, in questo incontro, Updike lo saluta con una “cordialità fraterna” che Bech trova, “francamente, offensiva”. La tensione è palpabile fin dall’inizio, con Bech che tira fuori il suo “registratore Zippo” e la sua prima, diretta domanda: “Come hai potuto farmi questo?”. È un’accusa non solo del libro “Bech at Bay”, ma dell’intera esistenza fittizia che Updike gli ha imposto.

Updike risponde all’accusa di Bech con un’affermazione sorprendente: “Ti amo, Henry – non è una ragione sufficiente?”. Poi rivela la genesi di Bech, presentandolo come la sua incarnazione di un sogno irrealizzato. Updike, un “ragazzo di campagna sconsolato”, desiderava ardentemente essere un “scrittore newyorkese, fino alle orecchie nei fumi tossici”. Confessa di essere venuto a New York, di aver “inalato, e poi fuggito”. Il fallimento di questo tentativo ha lasciato solo “le parole ‘New York’ sul certificato di nascita del mio figlio maggiore, e te”.

Questa ammissione è importante per comprendere la funzione di Bech: egli è l’Updike che avrebbe voluto essere, l’incarnazione di una vita urbana che l’autore reale non è riuscito a sostenere. Updike esprime invidia per Bech, ammirando il suo “linguaggio cittadino, le tue donne formose, la tua dignitosa noia, la tua capacità sotterranea di distinguere uptown da downtown e l’express dal local”. Updike stesso ammette la sua goffaggine nella metropoli, scherzando sulla sua incapacità di navigare la metropolitana. Bech è, in essenza, la proiezione dei desideri e delle fantasie urbane di Updike, un alter ego che vive la vita che il suo creatore non ha potuto o voluto.

Un’ accusa significativa di Bech riguarda il suo essere ebreo: “Cosa sai tu di essere ebreo?”. Bech suggerisce che la conoscenza di Updike sull’argomento sia superficiale, forse derivata da programmi radiofonici, e lo invita a chiedere a scrittori ebrei come Cynthia Ozick o Leon Wieseltier. Updike difende il suo diritto di approfondire questo tema, affermando che è un “diritto americano provare, anche nell’attuale clima stridente di diversità difensiva”. Ma va oltre, proponendo una definizione più ampia e provocatoria: “Essere uno scrittore, mi sembrava, è in una certa misura essere ebreo – estraneo ma scelto, condannato a vivere del proprio ingegno”. Questa frase è importante, poiché Updike ridefinisce l’identità ebraica non come una questione di etnia o religione, ma come una metafora per la condizione universale dello scrittore: un osservatore esterno, un emarginato che deve affidarsi alla propria intelligenza per sopravvivere nel mondo. Egli conclude che gli scrittori, come il “prete ubriaco” in “Il potere e la gloria” di Graham Greene, “possono ancora mettere la verità nella testa degli uomini”, chiedendo a Bech se condividono “quella meraviglia infantile”.

La risposta di Bech alla “meraviglia infantile” di Updike è il “terminale scoraggiamento”. La sua visione della vita letteraria è cupa, preferendo “il silenzio eterno di questi spazi infiniti”. Questa frase, una citazione di Pascal, evoca un senso di disperazione esistenziale di fronte alla vastità e all’indifferenza dell’universo, un sentimento che Bech applica al mondo della letteratura.
Updike non nega le difficoltà. Riconosce che “la vita non è più quella che sembrava ai tempi eleganti di Thornton Wilder e Bennett Cerf”, e che l’invecchiamento porta alla sfida di ogni nuova frase che “urta contro una che hai scritto 30 anni fa”. È una confessione sincera delle difficoltà di mantenere la freschezza e l’originalità nel lungo percorso di una carriera letteraria. Tuttavia, nonostante questa consapevolezza, Updike afferma che “anche nelle ombre bisogna camminare con fede”.

La sua descrizione del mestiere di scrivere è umile e profondamente radicata: “L’impresa è sempre stata esile, una mera spolverata di parole sulla superficie del non detto”. Eppure, anche di fronte al “silenzio che pende sempre dall’altra parte del foglio”, Updike conclude con una nota di speranza e resilienza: “nella mia limitata esperienza, il fondo del barile rimane umido, c’è invariabilmente stata un’altra cosa da dire”. Questa è la chiave di volta della sua filosofia di scrittura: la costante possibilità di trovare nuova materia, di estrarre ancora una storia dal profondo.
E qui arriva la rivelazione più meta-letteraria di tutte: Bech stesso era “la mia un’altra cosa” l’estate precedente. Updike rivela che aveva una storia “rimasta” sulla Cecoslovacchia che non era stata inclusa in “Bech is back”, e che ha scritto altre storie per accompagnarla, creando così “Bech at bay”, un “quasi-romanzo”. La conversazione si chiude con la consapevolezza che il personaggio è diventato la musa, e ora, l’intervistato è l’intervistatore: “Tu eri la mia un’altra cosa, e ora, eccoci qui, io sono la tua”.

L’intervista tra Henry Bech e John Updike non è solo un esercizio di auto-ironia, ma una profonda meditazione sulla natura della creazione letteraria. Updike, attraverso il suo alter ego, analizza le tensioni intrinseche tra la vita vissuta e la vita immaginata, il desiderio di essere qualcosa di diverso e le sfide di una professione che, nonostante le sue difficoltà, continua a offrire la possibilità di “mettere la verità nella testa degli uomini”. L’articolo è un’analisi brillante di come un autore possa oggettivare e interrogare se stesso attraverso i propri personaggi. Bech non è solo un’estensione di Updike, ma un’entità con una propria “ego ferito”, capace di confrontare il suo creatore sulle scelte narrative e le implicazioni morali della finzione. La conversazione si conclude con un’osservazione “carina” da parte di Bech e Updike che si ritira per “potare dei cespugli”, un finale quasi banale che riporta la discussione astratta sull’arte alla concretezza della vita quotidiana. Ma l’eco delle loro parole rimane, a testimoniare la complessa e ininterrotta danza tra l’autore e le innumerevoli vite che egli crea sulla pagina.

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