Molti celebrano il “miracolo economico” del secondo dopoguerra, ma pochi ricordano quanto arduo fu, per l’Italia unita, il cammino verso la modernità, soprattutto in ambito editoriale. Alla fine dell’Ottocento, il nostro Paese si trovava in una condizione di arretratezza tale da rendere quasi impensabile uno sviluppo industriale del libro paragonabile a quello già consolidato in Francia, Germania o Gran Bretagna.
Mancavano le basi: non esisteva un pubblico di lettori sufficientemente ampio, l’alfabetizzazione era scarsissima e l’istruzione elementare divenne obbligatoria solo nel 1877 con la legge Coppino. La tecnologia era antiquata, affidata a piccole imprese con pochi torchi, e la distribuzione era ostacolata da una rete ferroviaria frammentata. Perfino la carta stampata era soggetta a dazi.
Anche grandi nomi della letteratura patirono queste difficoltà: Alessandro Manzoni, per esempio, rischiò la rovina economica con la lussuosa edizione del suo I Promessi Sposi, che non raggiunse il break even point.
Eppure, nonostante tutto, un gruppo di pionieri vide nel libro non solo un’opera dell’ingegno, ma un vero e proprio prodotto industriale. Nel 1869, 86 editori italiani diedero vita all’Associazione libraria italiana. Tra loro nomi destinati a diventare leggendari: Giuseppe Pomba, Casimiro Bocca, Gaspero Barbèra, Felice Le Monnier, Edoardo Sonzogno, Nicola Zanichelli, Emilio Treves. Erano imprenditori ostinati, ma capaci di visione: si inserirono presto nelle reti internazionali del settore e furono tra i fondatori di Confindustria nel 1910, rivendicando a pieno titolo l’appartenenza del libro al mondo dell’industria.
Fu grazie a loro se, pur tra mille difficoltà, nacque un’editoria italiana moderna, capace di affermarsi a livello europeo e di accompagnare — e talvolta guidare — la crescita culturale e sociale del Paese.