Parlare di cibo significa addentrarsi in un universo che va ben oltre la semplice nutrizione; significa entrare in un terreno dove natura e cultura si intrecciano in modo profondo e complesso. Il cibo non è solo ciò che sostenta il corpo umano, ma è anche un prodotto di relazioni sociali, tradizioni, rituali e simboli che definiscono le nostre identità e connessioni con il mondo. In ogni piatto, in ogni gesto legato alla preparazione e al consumo, si riflette una storia che racconta chi siamo, da dove veniamo e come interpretiamo la realtà che ci circonda. Lungi dall’essere un fenomeno puramente naturale, il cibo è soprattutto cultura: frutto di scelte, trasformazioni e pratiche umane che trasformano gli elementi offerti dalla natura in qualcosa di unico e profondamente significativo. In questo senso, il cibo si fa portatore di valori, memorie e significati che trascendono il mero atto del nutrirsi, diventando un vero e proprio patrimonio da conoscere, preservare e valorizzare.
Come osserva Massimo Montanari nel suo libro Il cibo come cultura (Laterza, Roma-Bari, 2004), l’idea comune che il cibo sia un fenomeno “naturale” è in realtà un concetto ambiguo e sostanzialmente improprio. L’uomo non si limita a trovare e consumare ciò che la natura offre spontaneamente, ma esercita una capacità unica: quella di trasformare, reinterpretare e reinventare la natura stessa, dando vita a un sistema alimentare profondamente culturale. Montanari, nel suo libro, ci ricorda come già nell’antichità filosofi e medici, da Ippocrate in poi, definissero il cibo come res non naturalis — ovvero come qualcosa che non appartiene all’ordine naturale, ma piuttosto a quello artificiale, costruito dall’uomo. Questo non significa solo modificare la materia prima, ma coinvolge tutte le tappe che portano il cibo fino alla bocca dell’uomo, trasformandolo in un prodotto culturale a tutti gli effetti.
Il cibo è cultura innanzitutto nella sua produzione: l’uomo non si limita a predare ciò che trova, come fanno gli animali, ma aspira a creare il proprio cibo, attraverso pratiche di agricoltura, allevamento e trasformazione. È cultura anche nella preparazione: l’uso del fuoco, le tecniche di cucina, le ricette tramandate o reinventate sono manifestazioni di una tecnologia e di una tradizione culturale che plasmano il cibo in modi che portano con sé storie, simboli e valori. Infine, il cibo è cultura nel momento del consumo: non si tratta di mangiare indiscriminatamente, ma di scegliere secondo criteri che non sono solo economici o nutrizionali, ma che includono significati simbolici profondi, legati all’identità personale e collettiva.
Attraverso queste dimensioni, Montanari mostra come il cibo diventi un elemento centrale nell’identità umana e uno dei più potenti strumenti di comunicazione culturale. Mangiare non è mai un gesto neutro, ma un atto ricco di significati che riflettono chi siamo, da dove veniamo e cosa rappresentiamo.
Del cibo come cultura e come patrimonio, scrive Ilaria Porciani, che nel suo saggio Cibo come patrimonio. Un’introduzione (in Storicamente, 14, 2018, n. 1), racconta come il patrimonio culinario sia divenuto uno strumento potente non solo di valorizzazione culturale, ma anche di rivendicazione politica a livello globale (nel saggio viene inoltre spiegato come negli ultimi anni il cibo sia sempre più riconosciuto come patrimonio culturale fondamentale, soprattutto in tempi di crisi; il progetto COHERE WP6 ne studia le radici storiche e il ruolo nella costruzione delle identità locali, nazionali ed europee, con particolare attenzione alle dinamiche di genere). Qual è però il rapporto tra il patrimonio culturale e le dinamiche di identità culturale secondo Porciani?
Negli ultimi decenni, il rapporto tra cibo e identità nazionale ha assunto un ruolo centrale negli studi storici e culturali, dando vita a un campo di ricerca innovativo e multidisciplinare che si è sviluppato sotto il nome di «gastronazionalismo» o «nazionalismo culinario». Solo pochi anni fa, infatti, il tema del cibo come veicolo di identità nazionale era largamente trascurato: gli storici si concentravano prevalentemente sulle dinamiche politiche e militari del nazionalismo, mentre il concetto di patrimonio culturale — in particolare riferito al cibo — era appannaggio di studi più recenti, provenienti soprattutto dai «museum studies» e da altre discipline.
Questa prospettiva si è però profondamente ampliata, riconoscendo come la cultura alimentare non solo rifletta, ma contribuisca attivamente a costruire e consolidare l’identità nazionale. In un’epoca in cui le forme di nazionalismo si manifestano spesso in modi sottili e quotidiani, come evidenziato dagli studi sul cosiddetto nazionalismo banale, il cibo emerge come un potente simbolo di appartenenza e di orgoglio collettivo.
Esempi emblematici arrivano da contesti molto diversi, che vanno dal Giappone dell’era Meiji fino allo Stato di Israele nel secondo dopoguerra, dove politiche culinarie nazionaliste hanno giocato un ruolo significativo nel rafforzare i legami di comunità e nel definire identità politiche forti. Ma non mancano nemmeno episodi di vero e proprio conflitto culturale legato al cibo: le cosiddette «guerre del cibo» tra israeliani e palestinesi intorno al falafel o all’hummus, tra greci e ciprioti sul lokoumi, tra coreani e giapponesi per il kimchi, e tra armeni e turchi sul keşhkek e il dolma. Questi scontri mostrano come il cibo sia spesso molto più di un semplice prodotto gastronomico: diventa uno strumento di affermazione culturale e politica, con ripercussioni che superano di gran lunga il mercato alimentare.
In Europa, e in particolare in Italia, dove la cucina è sempre stata parte integrante dell’identità nazionale, questi fenomeni si sono intrecciati con questioni sociali e politiche più ampie. L’accentuazione di un’identità alimentare basata sulle tradizioni locali ha talvolta sfociato in posizioni di chiusura e in forme di razzismo, come è accaduto quando la Lega Nord ha contrapposto polemicamente la polenta, simbolo del Nord Italia, al couscous, associato alle culture straniere.
Parallelamente a queste dinamiche di conflitto, si è osservato a livello globale un vero e proprio boom della «patrimonializzazione» del cibo. Questo fenomeno riflette da un lato una crescente preoccupazione per la perdita di identità e memoria culturale nel presente, e dall’altro il desiderio di conservare, valorizzare e trasmettere le tradizioni culinarie come parte fondamentale del patrimonio culturale di una comunità o di una nazione. Tuttavia, questo processo può anche tradursi in un tentativo di musealizzazione eccessiva della cultura, che rischia di congelare il presente e di ostacolare una comprensione più dinamica e storicizzata della realtà.
La letteratura scientifica sul tema si è arricchita enormemente, abbracciando aspetti economici, politici, antropologici, simbolici e sociali della «food heritage», come dimostra l’ampia bibliografia curata da Laura di Fiore all’interno del progetto CoHERE. Questo materiale dimostra come la dimensione del cibo in quanto patrimonio culturale coinvolga una moltitudine di soggetti e di ambiti, dai produttori agricoli ai consumatori, dai legislatori agli studiosi.
Un fenomeno che conferma questa tendenza è la crescita esponenziale delle politiche di tutela delle indicazioni geografiche protette (IGP) e delle denominazioni di origine controllata (DOC), con l’Unione Europea che già nel 2016 aveva registrato oltre 1300 prodotti agricoli e gastronomici protetti da questi marchi. Questi strumenti normativi mirano a salvaguardare la qualità, l’autenticità e la storia dei prodotti locali, ma sono anche oggetto di dispute e controversie internazionali, dato il loro valore simbolico e commerciale.
Anche l’UNESCO ha ampliato il proprio concetto di patrimonio immateriale, rispondendo alle richieste dei paesi del Sud globale e di quelli in via di sviluppo, che chiedevano una definizione più inclusiva e meno eurocentrica di ciò che può essere considerato patrimonio culturale. In questo modo, le tradizioni culinarie, i saperi gastronomici e le pratiche alimentari diventano protagonisti di un dibattito globale che tocca temi di identità, riconoscimento e valorizzazione culturale.
Il cibo si è imposto dunque come un elemento fondamentale nella costruzione e nell’affermazione delle identità nazionali e culturali, trasformandosi in un vero e proprio «patrimonio» da difendere, celebrare e tramandare. Il suo studio non solo arricchisce la nostra comprensione delle società passate e presenti, ma ci invita anche a riflettere sulle dinamiche di inclusione e esclusione, di tradizione e innovazione che attraversano il mondo contemporaneo.
Unendo le riflessioni di Montanari e Porciani, emerge con forza come il cibo non sia solo un bisogno fisiologico, ma un vero e proprio patrimonio culturale che ha un ruolo centrale nella costruzione e nell’affermazione delle identità nazionali e sociali. Come sottolinea Montanari, il cibo è il frutto di complesse trasformazioni culturali che lo rendono un elemento di comunicazione e identità, ben lontano dall’essere un semplice prodotto della natura. Porciani amplia questa visione, evidenziando come il cibo sia diventato un simbolo da difendere, celebrare e tramandare, un elemento capace di raccontare le storie di un popolo e di consolidarne il senso di appartenenza.
Lo studio del cibo, dunque, non arricchisce solo la nostra conoscenza del passato, ma ci offre anche uno strumento prezioso per comprendere le società contemporanee, le loro dinamiche di inclusione ed esclusione, e il delicato equilibrio tra tradizione e innovazione. In un mondo globalizzato e in continua trasformazione, il cibo rimane un ponte tra culture e tempi diversi, un patrimonio da preservare e valorizzare per mantenere viva la memoria collettiva e stimolare il dialogo interculturale. In definitiva, il cibo ci invita a riflettere su chi siamo, da dove veniamo e su come desideriamo costruire il nostro futuro.