Nella sua “Isis Lecture” del 2003, Philip Pullman espone una critica ferma e appassionata dello stato dell’educazione contemporanea, concentrandosi in particolare sull’insegnamento della letteratura e della scrittura. La sua tesi centrale è che “qualcosa è andato storto” nel sistema educativo, un deterioramento che si manifesta chiaramente nel modo in cui le scuole affrontano libri, lettura e scrittura. Pullman suggerisce che la causa profonda di questo malessere è che l’educazione è ora pervasa da “l’emozione sbagliata”, che egli identifica verso la fine del suo discorso come la paura.
Pullman inizia la sua analisi puntando il dito contro il National Curriculum e i SATs, descrivendoli come il “cuore radiattivo” che guida l’intero sistema. La sua principale accusa è che la definizione di “lettura” fornita dalla Qualifications Curriculum Authority per i bambini di 11 anni è gravemente carente: essa elenca strategie come la decodifica, la selezione, la deduzione, l’inferenza e l’interpretazione, ma non menziona in alcun modo il piacere o il divertimento. Questa omissione è significativa, poiché suggerisce una profonda incomprensione della vera natura della lettura e del suo scopo. I libri, in questo sistema, non sono visti come opere complete da godere, ma come “pezzi di Lego” da smontare e analizzare. I bambini non sono nemmeno tenuti ad avere copie complete dei testi, con solo alcune pagine estratte e fotocopiate per lo studio della “struttura narrativa”.
La critica di Pullman si estende al modo in cui viene insegnata la scrittura. Egli denuncia l’approccio “formulaico”, come la creazione di elenchi di “caratteristiche di una buona apertura di storia” o l’applicazione di “sette regole per questo e cinque principi di quello”. Questo, afferma, è un inganno, un modo mendace di insegnare a scrivere, che non corrisponde al processo reale della creazione letteraria. Il metodo assomiglia più ai corsi di struttura narrativa di Hollywood che alla vera arte della scrittura. Il Reading Journal, con le sue richieste di riassunti di cinquanta parole o di trovare sinonimi per parole descrittive, è un altro esempio di attività che, anziché incoraggiare l’amore per la lettura, la rende odiabile e futile, riducendola a “lavoro da schiavi”. Il vero scopo della letteratura – deliziare, consolare, aiutarci a godere della vita o a sopportarla – è stato completamente dimenticato a favore di un’ossessiva analisi e commento.
Il sistema educativo è ossessionato da test e classifiche, che Pullman definisce un “obbrobrio”. Questi strumenti richiedono risultati “chiari, inequivocabili, unidimensionali”, ignorando la complessità delle risposte umane alla letteratura. Non c’è spazio per sfumature, per il “sia l’uno che l’altro” o per l’espressione di un’emozione profonda come “ho amato questo. Mi ha fatto sobbalzare il cuore”. A tal proposito, Pullman cita Marie L. Shedlock, una grande insegnante e narratrice del 1915, che già allora osservava come i bambini raramente esprimano le loro impressioni più profonde, considerate “sacre e personali”. Invece, imparano a fornire le “frasi standard” che sanno essere “accettabili per l’insegnante”. L’incessante testing trasforma i bambini in “piccole cellule nervose che si contraggono”, riducendo la ricchezza e la complessità delle loro emozioni a semplici “scatti” richiesti dal sistema per scalare le classifiche scolastiche. Questa metodologia non è solo rozza, stupida e crudele, ma è anche il risultato di una scelta deliberata da parte di persone “intelligenti e qualificate”.
Pullman offre una potente metafora per la vera scrittura: “pescare in barca di notte”. È un processo calmo, rilassato e attento, che richiede pazienza e un’intima consapevolezza dell’ignoto e dell’imprevedibile. Non si adatta a piani rigidi di quindici minuti di pianificazione e quarantacinque di scrittura. La scrittura autentica è un’esplorazione, un “mestiere” che, se preso sul serio, produce qualcosa di valore. Ricorda con orgoglio gli studenti che, incoraggiati a “pescare un pesce” a modo loro, hanno prodotto lavori di grande verità e significato, come un ragazzo che scriveva dei levrieri o due ragazze che raccontavano le loro biografie reciproche. Queste esperienze hanno insegnato ai bambini il potere del linguaggio, l’impatto delle loro parole sugli altri e l’importanza del tempo e della dedizione nella scrittura. Questo può accadere solo quando insegnante e allievo sono dalla stessa parte, con l’obiettivo di produrre qualcosa di valore, non solo di superare un test.
Pullman introduce poi il concetto di “parità”: l’idea che il pubblico (i lettori, ad esempio) debba sentire di poter partecipare all’attività artistica, se lo desidera. La scrittura, a suo avviso, possiede questa parità: basta una penna e della carta (o un computer) per iniziare, mettendo chiunque nello stesso “gioco” di grandi autori come Dickens o J.K. Rowling. La parità, tuttavia, è fragile e può facilmente venire meno. Egli cita l’esempio della mancanza di insegnamento strumentale nella sua scuola, che lo escluse dal “gioco” dei grandi musicisti classici. Oggi, una causa della rottura della parità è l’esposizione massiccia dei bambini alla narrativa tramite lo schermo (televisione), che li rende abili nel dialogo ma deboli nella narrazione, poiché lo schermo non fornisce loro il linguaggio per descrivere le azioni. Questo porta insegnanti e alunni a lavorare per “scopi incrociati”, non essendo nello stesso “gioco”.
Un altro problema è la disconnessione dei bambini dal patrimonio culturale del passato. Pullman lamenta che le voci più conservatrici hanno vinto la discussione sull’eredità culturale, isolando i giovani da “cose preziose” e condannandoli a un “campo profughi temporale”. L’esempio di un giovane poeta che disprezzava la poesia del passato come “roba vecchia e noiosa” illustra questa perdita. Nessuno lo aveva aiutato a vedere la poesia come “incanto” o “magia”, a sentirne la musicalità e il ritmo, o a percepire i poeti del passato come “compagni artigiani” che lottavano con gli stessi strumenti e passioni. Questa ricchezza è la loro “eredità”, un mondo di mille anni a cui hanno diritto, ma che non conoscono perché nessuno glielo ha mostrato. Questa reticenza deriva da un’eccessiva enfasi sull’autostima anziché sull’autostima, che Pullman definisce la capacità di padroneggiare le difficoltà. Per un’esagerata tenerezza, si tengono i bambini lontani da vere sfide, distruggendo la parità.
L’emozione sbagliata che permea il sistema è la paura, una “ansia cronica, incertezza, apprensione” che drena energia e paralizza. È la paura del governo verso l’elettorato, la paura dei funzionari pubblici di perdere il controllo, la paura dei ministri della stampa, la paura dei giornali della professione docente (“i docenti sono uomini e donne malvagi, politicamente motivati”). È la paura dei giovani insegnanti di annoiare la classe, la paura degli insegnanti più anziani di deviare dal piano, la paura dei presidi delle classifiche, la paura dei bambini dei SATs, la paura di sfidare un bambino per timore del fallimento. È la paura del silenzio, dell’immobilità e della pazienza, e soprattutto, la paura dell’incanto, del mistero, del lasciarsi andare alla meraviglia. Questa cultura della paura ha rimpiazzato la cultura della fiducia che esisteva trent’anni prima.
Nonostante la desolazione del quadro, Pullman offre una via da seguire, sebbene non un “salto gigantesco” ma “piccoli passi separati”. Egli propone cinque passi fondamentali.
1. Eliminare i test incessanti che non dicono nulla di utile.
2. Abolire le classifiche scolastiche, che sono un “abominio”.
3. Ridurre le dimensioni delle classi a non più di venti bambini.
4. Rendere l’insegnamento una professione attraente per le persone più dotate e fantasiose.
5. Adottare la “regola d’oro” che “Tutto ciò che chiediamo a un bambino di fare dovrebbe essere qualcosa di intrinsecamente degno di essere fatto”.
Se questi passi fossero intrapresi, non porterebbero a un’età dell’oro, ma dimostrerebbero serietà nel vivere, pensare e comprendere noi stessi, rendendo un complimento ai bambini e riconoscendo che il vero apprendimento inizia nella delizia, con le parole: “C’era una volta…”.
Il saggio di Pullman si rivela un potente promemoria del valore intrinseco dell’istruzione e della creatività, elementi che troppo spesso vengono sacrificati sull’altare della burocrazia e della paura di sbagliare. Con grande lucidità, Pullman ci invita a ripensare il significato stesso dell’apprendimento, a restituirgli quel senso di meraviglia e libertà che può davvero accendere la mente e il cuore di chi impara. La sua riflessione è un appello a educatori, studenti e istituzioni affinché si torni a vedere la scuola come un luogo di crescita e di curiosità, piuttosto che come una macchina di valutazioni e procedure. È importante sottolineare, però, che Pullman concentra la sua analisi sul sistema scolastico inglese, che presenta caratteristiche e problemi specifici, diversi da quelli del contesto italiano. Ciò non toglie che anche la nostra scuola, pur con la sua storia e peculiarità, soffra di limiti e difficoltà che meritano una riflessione altrettanto profonda (che non verrà trattata in questa sede), soprattutto in un’epoca in cui il valore dell’istruzione dovrebbe essere più che mai difeso e riscoperto.