L’emancipazione femminile e l’immagine della “Nuova donna” nel Novecento

Il Novecento è stato un secolo di straordinari cambiamenti, in cui le donne hanno progressivamente conquistato spazi di libertà, diritti e riconoscimenti fino ad allora loro negati. Dalla conquista del diritto di voto alle lotte per l’accesso al lavoro e all’istruzione, dai movimenti femministi degli anni ’60 e ’70 alle battaglie più recenti contro le discriminazioni e la violenza di genere, il percorso di emancipazione femminile è stato lungo, complesso e talvolta doloroso. È una storia fatta di sfide, ma anche di coraggio e determinazione, che ha saputo modificare il tessuto sociale e culturale di intere nazioni, mettendo in discussione antichi pregiudizi e modelli patriarcali radicati. In questo contesto, parlare di emancipazione significa anche riflettere sulla nostra società di oggi, sui progressi compiuti e sulle conquiste che ancora restano da raggiungere per una reale parità di genere.

Con uno sguardo attento e una profonda capacità di analisi storica e culturale, ne ha parlato un saggio di Sandro Bellassai, Il nemico del cuore. La Nuova donna nell’immaginario maschile novecentesco [“Storicamente”, 1 (2005), no. 2], che studia la complessa e spesso negativa rappresentazione della figura femminile nel XX secolo, inquadrandola nel contesto di una più ampia misoginia maschile e di un atteggiamento “antimodernista”. Al centro dell’analisi vi è la paura maschile di un declino della supremazia patriarcale e di un mutamento negli equilibri di potere tra i sessi, timore che ha alimentato lo stereotipo negativo della “Nuova donna”.

La caratterizzazione negativa della donna non è un fenomeno esclusivo del Novecento; una lunga tradizione culturale ha identificato il genere femminile come un soggetto “altro”, con caratteristiche ambivalenti, ora angelicate e sottomesse, ora ribelli e indipendenti. Tuttavia, la costante di questa tradizione è stata la percezione della donna come entità misteriosa da controllare e, soprattutto, come un essere “ontologicamente inferiore” all’uomo, la cui identità era definita entro limiti precisi da normative simboliche e giuridiche che riproducevano un ordine diseguale del potere.

La nascita della “Nuova donna” si colloca nel XIX secolo, quando divenne evidente che i tradizionali fondamenti della disuguaglianza di genere non avrebbero resistito alle trasformazioni sociali e culturali. Non si trattava più di singole donne ribelli, ma di veri e propri movimenti organizzati, come il femminismo, che per la prima volta nella storia criticavano la logica stessa del privilegio maschile. Le donne stavano guadagnando visibilità nel mondo del lavoro extradomestico, rivendicavano l’accesso all’istruzione e alle professioni, e assumevano un nuovo protagonismo in campo religioso, morale e sociale. In questo contesto dinamico, prese forma la rappresentazione stereotipata della “Nuova donna”, una figura che, pur collegandosi a tratti misogini del passato, era fortemente associata al carattere di “novità” e “modernità”. Questa immagine negativa aveva lo scopo di definire, riassumere e condannare il recente mutamento dell’identità femminile, collegandolo spesso a un più ampio contesto di “degenerazione della società”.

Secondo l’immaginario maschile dell’epoca, la “Nuova donna” era una traduzione in codice di genere del tema di una modernità “matrigna, distruttrice, disumanizzante”. Figure come il fisiologo Paolo Mantegazza descrivevano il “secolo nevrosico”, in cui l’accelerazione della vita moderna e il crescente coinvolgimento delle donne in attività “maschili” (studio, fumo, alcool) contribuivano a una “femminilizzazione” della società, intesa come una degenerazione. Questa “confusione dei generi” era vista come un disordine mostruoso che minacciava ogni istituto civile. Paul Julius Moebius, nel 1900, parlava di “uomini femminei e donne mascolinizzate”, considerando la mascolinizzazione delle donne una “disgrazia”. La “Nuova donna” era percepita come un “mostro contronatura”, antropologicamente regressivo e fisiologicamente sterile, che minacciava il futuro della civiltà occidentale. Le donne “mascoline” venivano allineate a “popoli selvaggi” e specie animali inferiori, incarnando la temuta possibilità di una regressione evolutiva. Pretendendo di invadere campi maschili e minacciando l’ordine patriarcale, la “Nuova donna” era vista come una “escrescenza patologica”, una “cellula degenerata” da isolare e annientare per la salvezza dell’umanità.

Gli anni della Prima Guerra Mondiale sembrarono offrire una tregua, con il ripristino di ruoli di genere netti (guerriero e angelo del focolare). Tuttavia, la guerra portò le donne a svolgere mansioni tradizionalmente maschili, come le tranviere, che divennero icone di un’epoca di emergenza. Nonostante ciò, passata l’emergenza, gli uomini chiesero a gran voce la cacciata delle donne dai posti di lavoro “maschili”. Il dopoguerra non vide però un ritorno alla normalità precedente; le donne ottennero il voto e maggiori diritti civili in molti Paesi occidentali. Gli anni Venti videro la “Nuova donna” dilagare, con figure come la flapper, la garçonne e la maschietta divenute categorie fisse dell’immaginario collettivo. Queste giovani donne, soprattutto del ceto medio urbano, desiderose di indipendenza economica e con atteggiamenti disinvolti, segnavano una chiara distanza dalle generazioni precedenti.

Umberto Notari, nel suo libello del 1929, descriveva la “donna tipo tre” come una nuova creatura della civiltà industriale, economicamente indipendente e che non nutriva più stima per l’uomo come pari nel lavoro. Notari notava una “enorme estensione di territorio morale, giuridico, economico” ceduto dagli uomini e calcolava che l’uomo aveva perso il controllo su una buona metà del sesso femminile. La presenza femminile nello sport e in vari ambiti lavorativi portava a una tendenza alla “virilizzazione” della donna e all'”infemminimento” dell’uomo.

Il regime fascista cercò di contrastare questa tendenza, nonostante un atteggiamento non del tutto univoco nei confronti delle donne. La campagna demografica, avviata nel 1927, mirava a restaurare la piena autorità patriarcale, esaltando la donna primariamente come “madre, fattrice di figli per la Nazione”. Furono varati provvedimenti per limitare il lavoro femminile, come la riduzione dei salari, l’esclusione dall’insegnamento di certe materie nei licei e il divieto di nominare donne a capo di istituti, culminando nel decreto del 1938 che limitava l’assunzione di personale femminile nel pubblico impiego al dieci per cento. Il regime ordinò anche di eliminare qualsiasi immagine della “donna-crisi”, una figura femminile magra e “mascolinizzata”, e glorificò la “Madre oscura”. Tuttavia, nonostante questi sforzi normativi, un’inchiesta di fine anni Trenta su studentesse romane rivelò un disinteresse per i lavori domestici, una preferenza per il ballo, il cinema e lo sport, e un “desiderio di comandare e non quello di ubbidire”, indicando il limitato successo delle politiche fasciste nel ripristino di quadri tradizionali della femminilità.

Il secondo dopoguerra in Italia, racconta Bellassai, fu un periodo di mutamenti non immediatamente visibili. Nonostante le immagini femminili prevalenti fossero tradizionali e rassicuranti fino ai primi anni Cinquanta, la società non era statica. Il voto ottenuto nel 1945 coinvolse le donne nella politica, ponendole al centro della vita pubblica e dando loro una nuova sicurezza soggettiva. L’immagine della donna “emancipata” emerse, ambivalente, riferendosi sia alla giovane disinibita che all’intellettuale o attivista, entrambe viste come critiche al protagonismo femminile. Questo protagonismo, favorito dal clima culturale “democratico” e dal rilassamento morale, scatenò una mobilitazione di moralisti e difensori della famiglia tradizionale. Nel dibattito sulla legge Merlin, ad esempio, fiorirono accenti misogini che raffiguravano la donna come “per sua natura tendente al vizio”.

A partire dagli anni Sessanta, l’immagine negativa della “Nuova donna” ha subito un evidente declino, perdendo gran parte della sua forza normativa. Questo declino ha seguito la crisi dell’identità maschile tradizionale. Le ragioni fondamentali sono state due.

Innanzitutto la “grande trasformazione” del boom economico. La crescente centralità femminile nel sistema del consumo di massa ha legittimato positivamente l’immagine della “Nuova donna”. Una definizione rigidamente patriarcale dell’identità femminile divenne un ostacolo all’espansione dei beni di consumo, portando gli uomini ad accettare una maggiore autonomia femminile nelle scelte e nella realizzazione dei propri desideri attraverso i prodotti. La consumatrice moderna non dava segni di voler distruggere il genere maschile o sovvertire l’equilibrio patriarcale.

C’è stata poi la rivoluzione politico-culturale del neofemminismo degli anni Settanta. Questo movimento ha posto con “autorevolezza senza precedenti” la questione politica della disuguaglianza di potere e del dominio maschile, rendendo anacronistiche le vecchie strategie retoriche a difesa della supremazia maschile. Gli argomenti scientifici sull’inferiorità femminile e il richiamo a una virilità nazionalista non erano più credibili in un decennio anti-autoritario e antimilitarista.

La “Nuova donna”, sebbene trasformata, non è scomparsa; continua a esprimere il disagio maschile per il protagonismo femminile, ma la logica patriarcale ha perso gran parte del consenso passato.

Negli anni Settanta, la “femminista” fu raffigurata come una “creatura mostruosa e inquietante”. Negli anni Ottanta, fu il turno della “donna in carriera”: algida, calcolatrice, spigolosa, spesso ammirata per i suoi “chiari attributi virili”, riesumando lo spettro dell’androgino o dell’ermafrodito. Queste figure rappresentano sempre una donna che “sconfinava, trasgrediva, scompigliava l’ordine costituito”, la cui libertà era vista come una minaccia alla “salute complessiva dell’umanità”.

Bellassai conclude il saggio con un esempio del 2003, in cui le “donne in carriera” vengono associate all’aumento della diffusione dell’AIDS a causa della loro libertà (viaggiano sole, hanno camere d’albergo, auto aziendali), suggerendo che la paura della “Nuova donna” come pericolo per la società è ancora presente.

Il saggio di Bellassai sull’emancipazione femminile nel Novecento è una lettura che ognuno di noi dovrebbe affrontare, soprattutto nel periodo storico che stiamo vivendo. È un testo che non si limita a ricostruire i principali passaggi della conquista dei diritti da parte delle donne, ma analizza con lucidità e profondità le dinamiche culturali e sociali che hanno alimentato il patriarcato e che, purtroppo, continuano a condizionare la nostra società.

Oggi, di fronte al drammatico dilagare dei femminicidi, alle discriminazioni sul lavoro, alle disparità salariali e a un linguaggio che ancora spesso tende a sminuire il ruolo delle donne, leggere un saggio come quello di Bellassai diventa un atto di consapevolezza. Le parole di Bellassai sono sempre attuali e sembrano invitarci a comprendere come la vera parità di genere non sia ancora stata raggiunta e quanto sia urgente scardinare quei modelli di pensiero arcaici, legati a una mentalità patriarcale, che alcuni uomini continuano a perpetuare.

La forza di questo saggio sta nella sua capacità di intrecciare storia, cultura e riflessione sociale, aiutandoci a capire che l’emancipazione non è un traguardo definitivo, ma un processo che richiede impegno e vigilanza costanti. Per questo, il saggio di Bellassai per noi non è solo un testo universitario e un’opera di analisi storica, ma anche un monito e un invito al cambiamento, che dovrebbe essere letto da chiunque voglia contribuire a costruire una società più equa e rispettosa.

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