L’atto aggressivo e intimo della scrittura: il processo creativo di Joan Didion

Joan Didion offre un’introspezione nel suo processo creativo e nella natura stessa della scrittura nel suo saggio “Why I Write”. Il titolo, come ammette Didion stessa, è stato intenzionalmente “rubato” a George Orwell, non solo per la sua sonorità ma perché “sommava, in modo pragmatico, tutto ciò che [aveva] da raccontare”. Questo saggio non è solo una riflessione sul perché si scrive, ma una dichiarazione radicale sulla scrittura come atto di auto-imposizione, scoperta e un’intima, quasi ossessiva, ricerca del significato nelle immagini che danzano nella mente.

Per Didion, la scrittura è intrinsecamente un atto aggressivo. “Scrivere è, per molti versi, l’atto di dire Io, di imporsi su altre persone, di dire ascoltatemi, vedetela a modo mio, cambiate idea”. Nonostante si possa tentare di mascherare questa aggressione con “qualificatori e congiuntivi provvisori, con ellissi ed evasioni”, il fatto ineludibile è che mettere parole su carta è “la tattica di un bullo segreto, un’invasione, un’imposizione della sensibilità dello scrittore sullo spazio più privato del lettore”. Questa prospettiva iniziale stabilisce il tono per una comprensione della scrittura non come una tranquilla contemplazione, ma come un’interazione potente e quasi conflittuale tra scrittore e lettore. La sonorità stessa delle parole “Why I Write” — “I I I”, [ai, ai, ai] — riecheggia questa centralità dell’“io” dello scrittore.

Didion dichiara apertamente di avere un unico “soggetto”, una sola “area”: l’atto di scrivere stesso. Non si considera una studiosa né un’intellettuale, rifiutando di “pensare in astratti”. Questa non è una dichiarazione di ignoranza, ma una netta distinzione della sua natura cognitiva. Durante i suoi anni universitari a Berkeley, Didion tentò con “una sorta di energia tardo-adolescenziale senza speranza” di acquisire un “visto temporaneo nel mondo delle idee”, sforzandosi di “forgiare per sé una mente che potesse affrontare l’astratto”.

Tuttavia, questo tentativo fu un fallimento. La sua attenzione “virava inesorabilmente verso lo specifico, il tangibile, ciò che era generalmente considerato, da tutti quelli che conosceva allora e da allora, il periferico”. Invece di contemplare la dialettica hegeliana, si ritrovava a concentrarsi su “un pero in fiore fuori dalla finestra e sul modo particolare in cui i petali cadevano sul [suo] pavimento”. Anziché la teoria linguistica, si chiedeva se le luci fossero accese nel bevatron sulla collina. Didion sottolinea che questa non era una metafora politica; era semplicemente interessata a un “fatto fisico”. Questa predilezione per il concreto e il sensoriale è ulteriormente evidenziata dai suoi ricordi vividi e dettagliati. Nonostante abbia scritto diecimila parole sulla cosmologia del Paradiso Perduto di Milton, non riesce a ricordare se Milton ponesse il sole o la terra al centro del suo universo. Ricorda invece “l’esatta rancidità del burro nella carrozza ristorante del City of San Francisco” e “il modo in cui i finestrini colorati dell’autobus Greyhound proiettavano le raffinerie di petrolio intorno allo Stretto di Carquinez in una luce grigia e oscuramente sinistra”. Questa attenzione al “periferico”, a “ciò che [poteva] vedere e gustare e toccare”, definisce la sua percezione del mondo e, di conseguenza, la sua scrittura.

Didion confessa di aver saputo per anni “quello che non [poteva] fare” e “quello che non [era]”, sentendosi come se viaggiasse con “un passaporto molto traballante, documenti falsi” nel mondo delle idee. Le ci vollero anni per scoprire “quello che [era]”. La risposta fu semplice e profonda: “una scrittrice”.

Essere una scrittrice, per Didion, non significa essere “brava” o “cattiva”, ma semplicemente una persona le cui ore più “assorbite e appassionate” sono dedicate a “disporre parole su pezzi di carta”. La sua stessa “mancanza di credenziali” nel mondo delle idee e la sua “limitata accessibilità alla [sua] propria mente” sono state le ragioni che l’hanno spinta a scrivere. Questo è il cuore della sua metodologia: “Scrivo interamente per scoprire cosa sto pensando, cosa sto guardando, cosa vedo e cosa significa. Cosa voglio e cosa temo”. Le domande che la tormentano – perché le raffinerie di petrolio le sembravano sinistre o perché le luci notturne del bevatron le sono rimaste impresse per vent’anni – sono il suo motore creativo, il suo modo di studiare “cosa sta succedendo in queste immagini nella [sua] mente”.

Quando Didion parla di “immagini nella [sua] mente”, si riferisce specificamente a “immagini che luccicano ai bordi”, un fenomeno che paragona alle illustrazioni di gatti disegnate da pazienti schizofrenici o alle percezioni descritte da chi assume allucinogeni. Questo “brillio” o “scintillio” (shimmer) è una sensazione che lei percepisce chiaramente, un’interazione tra l’oggetto e lo sfondo dove “tutto interagisce, scambia ioni”. Per lei, queste immagini non devono essere “pensate troppo”; piuttosto, bisogna “lasciarle sviluppare” in tranquillità, cercando di “localizzare il gatto nel brillio, la grammatica nell’immagine”.

Il termine “grammatica” è usato da Didion in senso letterale. La considera un “pianoforte che [suona] a orecchio”, ma ne riconosce la sua “infinita potenza”. Spiega che “spostare la struttura di una frase altera il significato di quella frase, in modo altrettanto definitivo e inflessibile quanto la posizione di una macchina fotografica altera il significato dell’oggetto fotografato”. L’arrangiamento delle parole è fondamentale, e questo arrangiamento è dettato dalla “immagine nella mente”. L’immagine decide la struttura della frase, la sua lunghezza, la sua forma. In definitiva, “L’immagine ti dice come disporre le parole e la disposizione delle parole ti dice, o mi dice, cosa sta succedendo nell’immagine”. È un processo in cui “Tu non lo dici. È l’immagine che ti dice”.

Didion illustra concretamente questa metodologia attraverso la genesi dei suoi romanzi. Per Play It as It Lays, non aveva “alcuna nozione di ‘personaggio’ o ‘trama’ o persino ‘incidente'”. Aveva solo “due immagini” e “un’intenzione tecnica: scrivere un romanzo così ellittico e veloce da finire prima che ci si accorgesse, un romanzo così veloce da esistere a malapena sulla pagina”.

La prima immagine era di “spazio bianco. Spazio vuoto”. Questa immagine dettò l’intenzione narrativa: un libro in cui “tutto ciò che accadeva sarebbe accaduto fuori dalla pagina, un libro ‘bianco’ al quale il lettore avrebbe dovuto portare i propri brutti sogni”. La seconda immagine, invece, era “di qualcosa effettivamente testimoniato”: “Una giovane donna con lunghi capelli e un corto top bianco attraversa il casinò del Riviera a Las Vegas all’una del mattino. Attraversa il casinò da sola e prende un telefono interno”. Questo momento specifico, ricco di domande irrisolte – chi la sta cercando? perché è lì? – fu il catalizzatore che fece iniziare a raccontare Play It as It Lays. Nonostante questo momento appaia solo “obliquamente” nel romanzo, la sua forza risiede nella sua specificità e nel suo potere evocativo, spingendo la narrazione a esplorare il “vuoto” e i “brutti sogni” attraverso la lista di cose che la protagonista, Maria, non avrebbe mai fatto.

Per il suo romanzo successivo, A Book of Common Prayer, Didion aveva diverse immagini iniziali: il bevatron, una fotografia di un Boeing 707 dirottato che bruciava nel deserto mediorientale, e la vista notturna da una camera d’albergo sulla costa colombiana dove era stata malata. Tuttavia, nessuna di queste immagini “le raccontò la storia di cui aveva bisogno”.

L’immagine che invece “scintillò e fece coalescere queste altre immagini” fu l’aeroporto di Panama alle 6 del mattino. Nonostante vi sia stata solo una volta per un’ora, l’immagine di quell’aeroporto le rimase “sovrapposta a tutto ciò che [vedeva] fino al giorno in cui [finì] A Book of Common Prayer”. Didion “visse in quell’aeroporto per diversi anni”, ricordando dettagli sensoriali come l’aria calda, il calore che si alzava dall’asfalto, la gonna umida, e l’asfalto che le si appiccicava ai sandali.

Didion rivela come le immagini diventino un punto di partenza per la creazione: non tutto ciò che ricorda dell’aeroporto era reale. Ad esempio, la donna americana con “un grande smeraldo quadrato al posto di un anello di matrimonio” non era lì; Didion “mise questa donna nell’aeroporto più tardi. [La inventò], proprio come in seguito inventò un paese in cui collocare l’aeroporto, e una famiglia per gestire il paese”. Questa donna, Charlotte Douglas, che insiste che l’acqua venga fatta bollire per venti minuti, divenne il fulcro attraverso cui la storia si rivelò.

È nell’atto di scrivere che le risposte emergono. Le parole “Sapevo perché Charlotte andava all’aeroporto anche se Victor no. Conoscevo gli aeroporti” furono scritte solo nella seconda settimana di lavoro sul libro, molto prima che Didion avesse idea di dove fosse stata Charlotte o perché andasse negli aeroporti. La necessità di nominare “Victor” emerse durante la scrittura della frase, per dare maggiore “spinta narrativa”. Ma l’aspetto più significativo è che “fino a quando non scrisse queste parole, non sapeva chi fosse ‘io’, chi stesse raccontando la storia”. Questo “io” non era la voce onnisciente dell’autrice, ma un personaggio, qualcuno che non solo conosceva Charlotte ma conosceva anche Victor.

Questo climax della scoperta del narratore sottolinea un punto fondamentale di Didion: “se avessi conosciuto la risposta a una qualsiasi di queste domande non avrei mai avuto bisogno di scrivere un romanzo”. La scrittura non è il processo di trasmettere ciò che già si sa, ma il mezzo attraverso il quale si arriva a sapere. È un viaggio di scoperta guidato da immagini sensoriali e dalla loro intrinseca “grammatica”, dove l’atto di disporre le parole sulla pagina rivela i pensieri, i personaggi, la trama e il significato. È un processo intimo e spesso solitario, in cui lo scrittore si immerge nelle proprie percezioni per dare forma a una realtà che, fino a quel momento, esisteva solo come un “brillio” ai margini della mente.

Joan Didion non scrive perché ha qualcosa da dire in un senso predefinito, ma scrive per scoprire cosa ha da dire. La sua penna è uno strumento di indagine, un modo per dare ordine e significato al caos delle percezioni e delle immagini che la assalgono, e nel farlo, impone la sua unica, inimitabile sensibilità sul lettore.

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