Il taccuino di Joan Didion, uno specchio dell’Io

Nel suo saggio “On Keeping a Notebook”, Joan Didion ci invita a conoscere la natura e lo scopo del suo rapporto profondamente personale con i taccuini. Lungi dall’essere semplici diari o registri fattuali di eventi, per Didion il taccuino si rivela uno strumento intimo e spesso enigmatico, la cui vera funzione non è quella di documentare la realtà esteriore, ma di riflettere e preservare la complessa e mutevole realtà interiore del suo “io”. Attraverso aneddoti personali, riflessioni e un’onesta ammissione delle imperfezioni della memoria, Didion ci conduce in una disamina di ciò che significa davvero “ricordare” per chi, come lei, è mosso da una compulsione a scrivere.

Il saggio si apre con un frammento criptico dal suo taccuino: “‘Quella donna Estelle'”, recita la nota, “‘è in parte il motivo per cui George Sharp e io siamo separati oggi.’ Vestaglia in crepe-de-Chine sporca, bar d’albergo, Wilmington RR, 9:45 del mattino di un lunedì di agosto”. Didion riflette a lungo su questa annotazione, cercando di svelarne il significato. Inizialmente, ha solo una nozione molto generica del contesto – forse in attesa di un treno o avendone perso uno, nel 1960 o 1961. Ricorda la donna, il barista indifferente e una ragazza all’altro capo del bar che parla a un gatto, vestita con un abito di seta a quadri con l’orlo scucito. Didion ricostruisce la scena: la ragazza è tornata dalla Eastern Shore, sta lasciando l’uomo accanto a lei per tornare in città, e desidera una spilla da balia per l’orlo del vestito, anelando a rimanere nel bar fresco e a fare amicizia con la donna in crepe-de-Chine. La ragazza è afflitta da un po’ di autocommiserazione e desidera “confrontare le Estelle”.

Ma il punto del saggio non è tanto la scena in sé, quanto la domanda che ne deriva: “Perché l’ho scritto? Per ricordare, certo, ma cosa esattamente volevo ricordare? Quanto di tutto ciò è realmente accaduto? È successo qualcosa? Perché tengo un taccuino, in fin dei conti?”. Didion ammette che è facile ingannare se stessi su questi aspetti. L’impulso di annotare le cose è “peculiarmente compulsivo”, inspiegabile per chi non lo condivide e “utile solo accidentalmente, solo secondariamente”. Per lei, inizia o non inizia nella culla, avendo sentito questa spinta fin dall’età di cinque anni. Fa un netto contrasto con sua figlia, che è “una bambina singolarmente benedetta e accettante, deliziata dalla vita esattamente come la vita si presenta a lei, non impaurita di addormentarsi e non impaurita di svegliarsi”. I custodi di taccuini privati, invece, sono “una razza del tutto diversa, riorganizzatori solitari e resistenti di cose, malcontenti ansiosi, bambini afflitti apparentemente alla nascita da un qualche presentimento di perdita”.

Un esempio della sua precoce inclinazione è il suo primo taccuino, un “Big Five tablet” datole dalla madre con il suggerimento di smettere di lamentarsi e imparare a divertirsi scrivendo i suoi pensieri. La prima annotazione descrive una donna che crede di morire assiderata nella notte artica, solo per scoprire, all’alba, di essere capitata nel deserto del Sahara, dove morirà di caldo. Didion non ha idea di quale “piega della mente di una bambina di cinque anni” abbia potuto suggerire una storia così “ironica” ed esotica, ma rivela una “certa predilezione per l’estremo che l’ha perseguitata nella vita adulta”.

Didion chiarisce enfaticamente che lo scopo di tenere un taccuino non è mai stato, né lo è ora, quello di avere un “accurato registro fattuale” di ciò che ha fatto o pensato. Un tale impulso, un “istinto per la realtà”, è qualcosa che a volte invidia ma non possiede. Ha sempre fallito nel tenere un diario, trovando il suo “approccio alla vita quotidiana” che varia “dal grossolanamente negligente al meramente assente”, e i tentativi di registrare gli eventi quotidiani si sono rivelati noiosi e misteriosi. Che significa “shopping, digitazione di un pezzo, cena con E, depressa”? Non lo sa né le importa.

In effetti, Didion ha abbandonato del tutto questo tipo di annotazione “inutile”. Invece, racconta quelle che alcuni definirebbero “bugie”. I membri della sua famiglia spesso la contraddicono riguardo alla sua memoria di eventi condivisi: “La festa non era per te, il ragno non era una vedova nera, non è andata affatto così”. Molto probabilmente hanno ragione, poiché Didion ha sempre avuto difficoltà a distinguere “tra ciò che è successo e ciò che potrebbe essere successo”, e rimane “non convinta che la distinzione, per i suoi scopi, importi”. Il granchio spaccato che ricorda di aver mangiato a pranzo il giorno in cui suo padre tornò da Detroit nel 1945 è “certamente un ricamo, intessuto nella trama del giorno per conferire verosimiglianza”. Nonostante il granchio non sia stato importante per gli eventi, è “precisamente quel granchio fittizio che mi fa rivedere il pomeriggio ancora una volta, un filmino familiare proiettato troppe volte, il padre che porta regali, la bambina che piange, un esercizio di amore e senso di colpa familiare”. Allo stesso modo, forse non ha mai nevicato nell’agosto in Vermont, ma “è così che mi è sembrato, e avrebbe potuto nevicare, potrebbe aver nevicato, ha nevicato”.

“Come mi è sembrato: questo si avvicina alla verità su un taccuino”. Didion a volte si illude sul perché lo tenga, immaginando che una sorta di “virtù parsimoniosa” derivi dal preservare tutto ciò che è osservato. Si dice che se si vede abbastanza e lo si scrive, un giorno in cui il mondo sembrerà “svuotato di meraviglia”, potrà semplicemente aprire il taccuino e lì sarà tutto, “un conto dimenticato con interessi accumulati, passaggio pagato per tornare al mondo là fuori”. Questi contenuti includono dialoghi sentiti in hotel e ascensori (come un uomo che indica il suo numero di calcio sulla ricevuta del cappello), impressioni su persone (Bettina Aptheker, Benjamin Sonnenberg, Teddy Stauffer), e “aperçus attenti” su tennisti, modelle fallite ed ereditiere greche. Ricorda un’ereditiera che le chiese se stesse nevicando fuori, durante una bufera a New York, una lezione che avrebbe potuto imparare da F. Scott Fitzgerald.

Tuttavia, Didion ammette che questa immaginazione – che il taccuino riguardi “altre persone” – è sbagliata. “Ma ovviamente non lo è. Non ho alcun vero interesse per ciò che uno sconosciuto ha detto a un altro… La mia posta in gioco è sempre, naturalmente, nella ragazza non menzionata con l’abito di seta a quadri. Ricordare com’era essere me: questo è sempre il punto”. Ammettere questo è difficile, poiché siamo cresciuti nell’etica che gli altri sono per definizione più interessanti di noi. Solo i molto giovani e i molto anziani possono raccontare i loro sogni a colazione, soffermarsi su se stessi. Gli altri si aspettano di mostrare assorbimento negli interessi altrui.

“Ma i nostri taccuini ci tradiscono, perché per quanto diligentemente registriamo ciò che vediamo intorno a noi, il comune denominatore di tutto ciò che vediamo è sempre, trasparente, sfacciatamente, l’implacabile ‘Io'”. Non si tratta di un taccuino per il consumo pubblico, ma di qualcosa di privato, “frammenti della corda della mente troppo corti per essere usati, un assemblaggio indiscriminato ed erratico con significato solo per il suo creatore”. A volte, anche il creatore ha difficoltà con il significato. Ad esempio, Didion non vede alcun punto nel sapere per il resto della sua vita che nel 1964, 720 tonnellate di fuliggine caddero su ogni miglio quadrato di New York City, eppure è nel suo taccuino, etichettato “FATTO”. Né ha bisogno di ricordare che Ambrose Bierce amava scrivere il nome di Leland Stanford come “£eland $tanford” o che “le donne intelligenti quasi sempre indossano il nero a Cuba”. Anche le note apparentemente marginali, come quella sul cappotto mandarino di Mrs. Minnie S. Brooks o la descrizione di Mrs. Lou Fox con la sua stola di cincillà e le borse Vuitton, si collegano al suo mondo interiore. Mrs. Minnie S. Brooks la riporta all’infanzia, a case piene di “reliquie indiane e frammenti di minerale d’oro e ambra grigia e i souvenir che la zia Mercy Farnsworth portava dall’Oriente”. Questi dettagli aiutano Didion a ricordare “ciò che sono” e “ciò che non sono”.

A volte, il significato è più difficile da discernere. Che intendeva annotando che costava al padre di un suo conoscente 650 dollari al mese per illuminare il posto sull’Hudson in cui viveva prima del crollo finanziario?. O una frase di Jimmy Hoffa: “Potrei avere i miei difetti, ma essere in torto non è uno di questi”? Persino una ricetta per i crauti nel suo taccuino ha un significato personale. La frase “È nato la notte in cui affondò il Titanic” le sembra una bella frase, e ricorda chi l’ha detta e il contesto. Ma Didion si rende conto che è “una linea migliore nella vita di quanto potrebbe mai essere nella finzione”.

“Ma ovviamente è proprio questo: non che dovrei mai usare la frase, ma che dovrei ricordare la donna che l’ha detta e il pomeriggio in cui l’ho sentita”. Ricorda la terrazza sul mare, il vino, il sole invernale della California. La donna voleva affittare la sua casa per mille dollari al mese e tornare dai suoi figli a Parigi. Didion desiderava potersi permettere la casa e credere nel “un giorno arriverà”. Ma poi un leggero mal di testa pomeridiano, l’aver investito un serpente nero e la “paura inspiegabile” udendo la cassiera del supermercato spiegare il motivo del suo divorzio – “Ha avuto un bambino di sette mesi da lei, non mi ha lasciato scelta” – le riportano alla realtà. La sua paura, ammette, non era per la condizione umana, ma per se stessa: “perché volevo un bambino e allora non ne avevo uno e perché volevo possedere la casa che costava 1.000 dollari al mese in affitto e perché avevo il mal di testa”.

“Tutto torna”. Didion vede il valore di riavere il proprio “io” in quel tipo di umore. Suggerisce che è saggio “mantenere una conoscenza amichevole con le persone che eravamo soliti essere, che le troviamo una compagnia attraente o meno”. Altrimenti, appaiono “senza preavviso e ci sorprendono, bussano alla porta della mente alle 4 del mattino di una brutta notte e chiedono di sapere chi li ha abbandonati, chi li ha traditi, chi farà ammenda”. Dimentichiamo troppo presto le cose che pensavamo di non poter mai dimenticare: amori, tradimenti, sussurri, urla, chi eravamo. Didion ha già perso il contatto con alcune persone che era solita essere. Una di loro, una diciassettenne, rappresenta una piccola minaccia, ma sarebbe interessante sapere di nuovo “come ci si sente a sedersi su un argine di fiume bevendo vodka e succo d’arancia e ascoltando Les Paul e Mary Ford”. Ha ancora le scene, ma non si percepisce più presente. L’altra, una ventitreenne, la infastidisce di più, “sempre un gran problema”, che sospetta riapparirà quando meno la desidera.

“È una buona idea, quindi, rimanere in contatto, e suppongo che rimanere in contatto sia il senso dei taccuini”. Ognuno è da solo nel mantenere aperte queste linee con se stesso: “il tuo taccuino non mi aiuterà mai, né il mio te”. Un’altra nota, “Allora, cosa c’è di nuovo nel mondo del whisky?”, ha un significato solo per lei: una bionda in costume Pucci con uomini grassi in piscina all’hotel Beverly Hills, un incontro silenzioso e la frase di benvenuto. Anni dopo, la bionda le appare invecchiata e stanca, il suo cappotto di visone non più alla moda. Questo la porta a non volersi guardare allo specchio e a notare solo morti e malattie nei giornali, e a percepire la vecchiaia negli sconosciuti che vedeva da anni sulla metro.

Tutto torna. Persino quella ricetta per i crauti. Le riporta alla memoria Fire Island, la pioggia, il bourbon, e la sensazione di sicurezza. Pur avendo rifatto i crauti la sera precedente senza provare la stessa sicurezza, conclude con “ma questa è, come si suol dire, un’altra storia”.

Il saggio di Joan Didion svela quindi il taccuino non come un mero deposito di informazioni, ma come un intimo archivio del sé, un mezzo per scoprire e narrare la fluidità della propria identità e memoria. Attraverso le sue annotazioni, spesso ambigue e imprecise dal punto di vista fattuale, Didion cerca non tanto la verità degli eventi, quanto la verità dei sentimenti e delle percezioni che quegli eventi hanno generato in lei. È uno strumento essenziale per “ricordare com’era essere me”, per mantenere un ponte con le persone che è stata, e per comprendere l’implacabile “Io” che permea ogni osservazione. Il suo taccuino è un luogo di rivelazione personale, dove anche i dettagli più insignificanti possono rievocare interi stati d’animo e riconnettere il presente con il passato, garantendo che nessuna parte del sé venga abbandonata e dimenticata. È, in ultima analisi, un atto di auto-preservazione e di ricerca di coerenza nell’impervia architettura della propria coscienza.

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