Perché si scrive? Cosa spinge una persona a sedersi davanti a un foglio bianco – o a una macchina da scrivere, come accadeva nel 1946 – per cercare parole che diano forma al pensiero? George Orwell prova a rispondere a questa domanda nel suo saggio Why I Write (Perché scrivo), offrendo molto più di un’autobiografia letteraria: ci regala una riflessione profonda e articolata sulle motivazioni che guidano l’atto dello scrivere. Orwell non si nasconde dietro idealismi o formule retoriche: il suo approccio è diretto, sincero, a tratti spiazzante. Parte dal proprio vissuto, raccontando i primi esperimenti narrativi dell’infanzia e l’evoluzione graduale di una vocazione, ma amplia presto lo sguardo, cercando di individuare quegli elementi ricorrenti, quasi archetipici, che muovono chiunque scelga la parola scritta come mezzo di espressione.
Why I Write (Perché scrivo) è un testo che parla non solo agli scrittori, ma a tutti coloro che si interrogano sul senso della parola scritta. È un invito a guardarsi dentro con onestà, a riconoscere le ragioni profonde (narcisistiche, estetiche, morali o ideologiche) che ci spingono a scrivere. E allo stesso tempo, è un manifesto che ci ricorda quanto la scrittura sia sempre anche un atto di responsabilità nei confronti del mondo che ci circonda.
Orwell rivela di aver saputo fin dall’età di cinque o sei anni che sarebbe diventato uno scrittore. Nonostante un tentativo di abbandonare questa idea tra i diciassette e i ventiquattro anni, sentiva che ciò “oltraggiava la [sua] vera natura”. L’infanzia di Orwell fu segnata da una certa solitudine, essendo il figlio di mezzo con un divario di cinque anni da entrambi i fratelli e avendo visto poco il padre prima degli otto anni. Questa solitudine lo portò a sviluppare “manierismi sgradevoli” che lo resero impopolare a scuola. È in questo contesto che nacque l’abitudine del “bambino solitario di inventare storie e tenere conversazioni con persone immaginarie”. Orwell credeva che le sue ambizioni letterarie fossero intrinsecamente legate a questo senso di isolamento e al sentirsi “sottovalutato”. La sua “facilità con le parole” e la “capacità di affrontare fatti spiacevoli” crearono una “specie di mondo privato” dove poteva rifarsi dei suoi fallimenti nella vita quotidiana. Nonostante questa precoce inclinazione, la quantità di “scrittura seria” prodotta durante l’infanzia fu minima, non più di “mezza dozzina di pagine”. I suoi primi tentativi includevano una poesia sull’età di quattro o cinque anni, dettata alla madre, che ricordava solo per la frase “denti a sedia” e il sospetto di plagio da “Tiger, Tiger” di Blake. Successivamente, scrisse poesie patriottiche che furono pubblicate nel giornale locale.
Accanto ai suoi scarsi tentativi di “lavoro serio” e alla produzione “su commissione” (come poesie semi-comiche e la redazione di riviste scolastiche, fatte “senza molto piacere”), Orwell si dedicò a un esercizio letterario di natura molto diversa e più significativa. Per oltre quindici anni, fino a circa venticinque anni, mantenne nella sua mente una “storia” continua su se stesso, una sorta di “diario esistente solo nella mente”. Sebbene all’inizio fosse una narrazione “narcisistica” in cui si immaginava come Robin Hood, si trasformò rapidamente in una “mera descrizione di ciò che stavo facendo e delle cose che vedevo”. Questa “storia” mentale era caratterizzata da una “qualità descrittiva meticolosa”, come nell’esempio di “Aprì la porta ed entrò nella stanza. Un raggio di sole giallo, filtrando attraverso le tende di mussola, si inclinava sul tavolo, dove una scatola di fiammiferi, semiaperta, giaceva accanto al calamaio. Con la mano destra in tasca si mosse verso la finestra. Giù in strada un gatto tartarugato inseguiva una foglia morta”. Orwell sentiva questa spinta descrittiva quasi “contro la sua volontà, sotto una specie di compulsione dall’esterno”, pur ricercando le parole giuste. Questo esercizio mentale, sebbene “non letterario” in superficie, fu una pratica fondamentale per lo sviluppo del suo stile descrittivo.
Intorno ai sedici anni, Orwell ebbe una rivelazione: scoprì la “gioia delle mere parole, cioè i suoni e le associazioni delle parole”. Egli cita due versi dal Paradiso Perduto di Milton — “So hee with difficulty and labour hard / Moved on: with difficulty and labour hee” — che, pur non sembrandogli più così “meravigliosi”, gli “mandavano i brividi lungo la schiena”, e la grafia arcaica “hee” per “he” era un “piacere aggiunto”. Già a quel punto, conosceva il “bisogno di descrivere le cose”. Questa consapevolezza stilistica lo portò a desiderare di scrivere “enormi romanzi naturalistici con finali infelici, pieni di descrizioni dettagliate e similitudini incisive, e anche pieni di passaggi retorici in cui le parole erano usate in parte per il suono stesso”. Il suo primo romanzo completato, Giorni in Birmania, scritto all’età di trent’anni ma concepito molto prima, rifletteva proprio questo tipo di ambizione.
Orwell sottolinea l’importanza di conoscere il “primo sviluppo” di uno scrittore per valutarne le motivazioni, poiché un “atteggiamento emotivo” acquisito precocemente modella il suo impulso a scrivere. Egli identifica quattro grandi motivazioni per la scrittura in prosa, oltre al bisogno di guadagnarsi da vivere.
1- Puro egoismo. Questo include il desiderio di apparire intelligenti, di essere discussi, di essere ricordati dopo la morte, o di vendicarsi degli adulti che ti hanno umiliato nell’infanzia. Orwell lo definisce “ipocrisia” negare che sia una motivazione “forte”, condivisa da figure di successo in vari campi. Egli ritiene che gli scrittori seri siano “più vanitosi e egocentrici dei giornalisti”, sebbene “meno interessati al denaro”.
2- Entusiasmo estetico. La percezione della bellezza nel mondo esterno o “nelle parole e nella loro giusta disposizione”. Questa gioia si manifesta nel suono delle parole, nella “fermezza di una buona prosa” o nel “ritmo di una buona storia”. È anche il desiderio di condividere un’esperienza che si percepisce come “valutabile e che non dovrebbe essere persa”. Anche in scritti non prettamente artistici, come pamphlet o libri di testo, esistono preferenze estetiche.
3- Impulso storico. Il desiderio di “vedere le cose come sono, di scoprire fatti veri e di conservarli per l’uso della posterità”. Questa motivazione è legata alla ricerca della verità e alla documentazione.
4- Scopo politico. Utilizzando il termine “politico” nel suo senso più ampio, si intende il “desiderio di spingere il mondo in una certa direzione, di alterare l’idea degli altri del tipo di società a cui dovrebbero tendere”. Orwell afferma che nessun libro è “genuinamente libero da pregiudizi politici”, e l’opinione che l’arte non debba avere a che fare con la politica è di per sé un “atteggiamento politico”. Orwell osserva come queste motivazioni “devono scontrarsi tra loro” e “fluttuare” nel tempo e da persona a persona.
Per sua natura, Orwell si considerava inizialmente una persona in cui i primi tre motivi avrebbero prevalso sul quarto. In un’epoca pacifica, avrebbe potuto scrivere “libri ornati o semplicemente descrittivi” e rimanere “quasi inconsapevole” delle sue “lealtà politiche”. Tuttavia, le circostanze lo hanno “costretto a diventare una specie di pamphlettista”. Cinque anni nella Polizia Imperiale Indiana in Birmania, uniti alla povertà e al senso di fallimento, aumentarono il suo “odio naturale per l’autorità” e lo resero “pienamente consapevole dell’esistenza delle classi lavoratrici”. Il suo lavoro in Birmania gli diede anche una comprensione della “natura dell’imperialismo”. Nonostante queste esperienze, il suo “orientamento politico accurato” non si formò completamente fino a eventi come “Hitler, la Guerra Civile Spagnola”.
Orwell esprime il suo dilemma interiore in una poesia scritta alla fine del 1935. La poesia contrappone la possibilità di una vita tranquilla (“Un allegro vicario sarei potuto essere / Duecento anni fa… / A guardare i miei noci crescere”) a una realtà dura imposta dai tempi “cattivi”. Evoca un tempo perduto di gioie naturali e innocenza (“Il verdone sul ramo di melo / Poteva far tremare i miei nemici”) in contrasto con un futuro meccanizzato e senza sogni, dove “I cavalli sono fatti di acciaio cromato / E piccoli uomini grassi li cavalcheranno”. La poesia si conclude con la dolorosa consapevolezza di essere nato in un’epoca simile.
La Guerra Civile Spagnola e altri eventi del 1936-37 furono il punto di svolta per Orwell. “Ogni riga di lavoro serio che ho scritto dal 1936 in poi è stata scritta, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo e per il socialismo democratico”. Egli ritiene assurdo pensare di evitare tali argomenti in tempi come i suoi, poiché “tutti ne scrivono in una forma o nell’altra”. La chiave è essere “più consapevoli del proprio pregiudizio politico” per agire politicamente senza “sacrificare la propria integrità estetica e intellettuale”.
L’obiettivo principale di Orwell per dieci anni è stato quello di “fare della scrittura politica un’arte”. Sebbene il suo punto di partenza sia sempre un “senso di parte” e di “ingiustizia”, con l’intento primario di “farsi sentire”, non potrebbe scrivere un libro senza che fosse anche un’esperienza estetica. Riconosce che persino la sua “propaganda schietta” contiene elementi che un politico a tempo pieno considererebbe “irrilevanti”. Orwell non può né vuole abbandonare la visione del mondo acquisita nell’infanzia, mantenendo un forte sentimento per lo stile in prosa, l’amore per la superficie della terra, e il piacere per gli “oggetti solidi e frammenti di informazioni inutili”. La sua sfida è “conciliare i [suoi] gusti e antipatie radicati con le attività essenzialmente pubbliche, non individuali, che questa epoca ci impone a tutti”.
Questa riconciliazione non è facile e solleva “problemi di costruzione e di linguaggio” e la questione della “veridicità”. Un esempio lampante è il suo libro sulla Guerra Civile Spagnola, Omaggio alla Catalogna, un libro “francamente politico”. Nonostante cercasse di mantenerne un certo “distacco e riguardo per la forma” e di dire la “verità intera senza violare i [suoi] istinti letterari”, incluse un lungo capitolo che difendeva i trotskisti falsamente accusati di complotto con Franco. Un critico gli disse che questo capitolo “rovinava il libro”, trasformandolo in “giornalismo”. Orwell ammette che ciò era vero in un certo senso, ma “non avrebbe potuto fare altrimenti” perché sapeva che “uomini innocenti venivano falsamente accusati”, e “se non fossi stato arrabbiato per questo non avrei mai scritto il libro”.
Negli anni più recenti, Orwell ha cercato di scrivere “meno pittorescamente e più esattamente”, notando che, una volta perfezionato uno stile, lo si supera sempre. La fattoria degli animali fu il primo libro in cui cercò, con piena consapevolezza, di “fondere scopo politico e scopo artistico in un’unica entità”.
Orwell conclude il suo saggio riaffermando che i suoi motivi non sono stati “interamente altruistici”. Riconosce che “tutti gli scrittori sono vanitosi, egoisti e pigri”, e che “nel profondo delle loro motivazioni si nasconde un mistero”. Descrive la scrittura di un libro come una “lotta orribile, estenuante, come una lunga crisi di una malattia dolorosa”, intrapresa solo perché spinti da un “demone che non si può né resistere né comprendere”. Questo “demone” potrebbe essere lo stesso istinto che porta un bambino a strillare per attenzione. Eppure, paradossalmente, per scrivere qualcosa di leggibile, è necessario “lottare costantemente per cancellare la propria personalità”. “Una buona prosa è come un vetro di finestra”.
Pur non potendo affermare con certezza quali dei suoi motivi siano i più forti, Orwell sa quali “meritano di essere seguiti”. Esaminando il suo lavoro, egli osserva che è “invariabilmente dove mancavo di uno scopo politico che ho scritto libri senza vita ed ero tradito da passaggi retorici, frasi senza significato, aggettivi decorativi e ipocrisia in generale”. Questa affermazione finale solidifica l’idea che, per Orwell, la vera forza e significato della sua scrittura, in un’epoca di profonde crisi, risieda nell’abbracciare e integrare il suo scopo politico con la sua vocazione artistica. “Perché Scrivo” rimane un testo fondamentale per comprendere non solo George Orwell come scrittore e pensatore, ma anche la natura della creatività letteraria e la sua responsabilità nel contesto sociale e politico.