L’arte non codificabile: riflessioni sul mestiere di scrittore secondo Zadie Smith

Zadie Smith si distingue non solo per la sua incisiva narrativa, ma anche per la sua profonda e spesso scomoda onestà riguardo al processo di scrittura. Il suo saggio “L’arte della fiction: riflessioni sul mestiere” è un esempio lampante di questa trasparenza, offrendo una prospettiva senza filtri sulle gioie, le ansie e le contraddizioni intrinseche alla creazione di un romanzo. Smith dichiara fin da subito la sua profonda ansia e diffidenza verso le lezioni sulla “craft”, percependole come intrinsecamente “fraudolente” e persino “un odore di olio di serpente”. Questa diffidenza nasce dalla convinzione che la scrittura di narrativa non sia un processo astratto o codificabile, ma un’esperienza unica e personale per ogni romanzo.

Smith si sente a suo agio quando le viene chiesto di scrivere una storia, paragonando il compito a quello di uno scultore che deve ricavare una forma da un “blocco di pietra comprensibile”. Il risultato, anche se imperfetto, è la forma che onestamente credeva fosse lì. Al contrario, parlare del mestiere in astratto la mette a disagio, spingendola a credere che si dovrebbe “correre, non camminare” da qualsiasi saggio intitolato “L’arte della fiction” che non riguardi l’arte di un pezzo specifico di narrativa. Questa è una distinzione fondamentale: mentre i critici e gli accademici sono dedicati all’analisi del mestiere “dopo il fatto” e le loro analisi sono “indispensabili” per i lettori, il loro lavoro non può realmente aiutare uno scrittore mentre scrive. Il linguaggio privato che uno scrittore usa per descrivere il proprio processo è spesso “banale” e “inadeguato per un’aula”, e ogni tentativo di “abbellirlo” per un pubblico esterno risulta ingannevole. Smith stessa ha provato questa sensazione leggendo How Fiction Works di James Wood: mentre la parte “lettrice” del suo cervello era entusiasta della precisione, la parte “scrittrice” sentiva il bisogno di “lanciare il libro attraverso la stanza” perché una consapevolezza troppo acuta del processo (come l’ “intimate third person”) potrebbe paralizzare la capacità di scrivere. Il suo obiettivo, quindi, è offrire una lezione “quasi onesta” utilizzando il linguaggio privato di uno scrittore, consapevole che il suo discorso sarà limitato alla sua esperienza di “dodici anni e tre romanzi”.

Una delle prime intuizioni concrete che Smith offre riguarda due tipologie di romanzieri: il “Macro Planner” e il “Micro Manager”. Il Macro Planner è riconoscibile per i suoi Post-it e Moleskine, organizzando materiale, trama e struttura prima di scrivere anche una sola pagina. Questo gli conferisce una grande libertà di movimento, permettendogli persino di iniziare a scrivere un romanzo dal mezzo. Al contrario, Smith si identifica come una “Micro Manager”. Lei inizia dalla prima frase e finisce all’ultima, senza avere la minima idea di quale sarà la fine finché non ci arriva. La sua metafora è eloquente: i Micro Manager costruiscono una casa “piano per piano, discretamente e nella sua interezza”, assicurandosi che ogni piano sia “robusto e completamente arredato” prima di costruire il successivo. Questo approccio comporta una “patologia speciale” che Smith battezza “OPD, o Disturbo Ossessivo della Prospettiva” (Obsessive Perspective Disorder). Questa condizione si manifesta principalmente nelle prime venti pagine e rappresenta una sorta di “dramma esistenziale” che risponde alla domanda: “Che tipo di romanzo sto scrivendo?”. L’OPD si traduce in una “fissazione compulsiva sulla prospettiva e sulla voce”, portando a continui cambiamenti di tempo e persona nel corso della giornata. Nel caso del suo romanzo On Beauty, questo disturbo è “andato completamente fuori controllo,” costringendola a rielaborare le prime venti pagine per quasi due anni, un’esperienza che l’ha fatta sentire “come se stesse perdendo la testa”. Nonostante l’agonia, Smith rivela un paradosso: “Mentre l’OPD sta accadendo, in qualche modo il lavoro del resto del romanzo viene svolto”. È come tendere la chiave di una macchinina giocattolo: quando finalmente la si rilascia, l’auto “viaggia a una velocità pazzesca”. Per la Micro Manager, la preoccupazione per le prime venti pagine è il modo per trovare la struttura, la trama e i personaggi dell’intero romanzo, poiché tutto è contenuto nella “sensibilità di una frase”. Una volta trovato il tono, “tutto il resto segue”.

La scrittura è, secondo Smith, un “trucco di fiducia”, e la persona principale da ingannare è se stessi. Per farlo, ha bisogno di “frasi intorno a sé, citazioni, l’equivalente letterario di una squadra di cheerleader”. Queste non sono cheerleader che incoraggiano, ma piuttosto “giovani donne che tengono in alto cartelli che la fanno sentire male”, ricordandole “quanto cammino ha ancora da fare”. Per cinque anni, una citazione di Pynchon da Gravity’s Rainbow è stata appesa alla sua porta, rappresentando un ideale di ricerca rigorosa di informazioni nascoste. Ma la scrittrice di allora non è la scrittrice di oggi: quella visione del romanzo le appare ora “oppressiva, aliena, totalmente inutile”.

Questa evoluzione del punto di vista dello scrittore è comune, come dimostrato dall’aneddoto di un giovane romanziere portoghese che implorò Smith di non leggere il suo primo romanzo, scritto quando era “una persona diversa”. Le parole degli altri sono un “ponte” per attraversare da dove si era a dove si sta andando. L’eccitazione di un nuovo romanzo, per Smith, risiede quasi interamente nella “ripudiazione di quello che ho scritto prima”. Una nuova citazione di Derrida (“Se non si mantiene il diritto a un segreto, allora siamo in uno spazio totalitario”) è ora il suo screensaver, fungendo da “ripudio diretto” della citazione di Pynchon e offrendole “aria fresca per respirare”. La sua precedente “passione per la dissezione umana” dei personaggi, estirpandone ogni segreto senza “delicatezza, né silenzio”, le appare ora “orribile”. La consapevolezza che ogni nuovo romanzo diventerà presto “vergognoso e strano” le dà una “strana, inversa fiducia,” perché l’essere “distrutta” significa avere “spazio davanti a sé, un posto dove andare,” evitando l’incubo di “perdere il desiderio di muoversi”.

Smith analizza ulteriormente il tema delle “parole altrui” distinguendo tra scrittori che rifiutano di leggere altri romanzi mentre scrivono, temendo la corruzione della voce o l’oppressione della grandezza, e quelli che, come lei, desiderano ascoltare “ogni membro dell’orchestra”. La sua scrivania è “coperta di romanzi aperti”, che lei legge per sintonizzarsi su una certa sensibilità, per “colpire una nota particolare”, per incoraggiare il rigore o la fluidità verbale. Paragona la lettura a una “dieta equilibrata”: se le sue frasi sono “gonfie, troppo barocche,” taglia il “grasso Foster Wallace” e prende Kafka come “foraggio”; se si sta perdendo nella propria estetica, prende Dostoevskij, “il santo patrono della sostanza sullo stile,” per ricordarsi che “la buona scrittura è più che frasi eleganti”. L’unica regola è la qualità: durante le prime cento pagine, non può leggere “spazzatura”.

Contrariamente alla convinzione di alcuni studenti che la lettura mentre si scrive sia dannosa, Smith celebra l'”eco letteraria” di E.M. Forster. La sua ispirazione più forte viene da John Keats, che le ha offerto la possibilità di entrare nella scrittura “da una porta laterale, quella contrassegnata ‘Apprendisti benvenuti qui'”. Keats, un ragazzo della classe medio-bassa con poca pretesa di appartenenza al mondo letterario, ha creato la sua scena dai libri della sua biblioteca, senza temere l’influenza, ma anzi, “divorandola”. L’immagine di Keats come modello, che “si sforzava, divorava libri, plagiava, impersonava, adattava, lottava, cresceva, scriveva molte poesie che lo facevano arrossire, e poi alcune che lo rendevano orgoglioso, imparando tutto ciò che poteva da chiunque potesse trovare, morto o vivo, che potesse avere qualcosa di utile da insegnargli,” è una fonte di ispirazione costante per Smith, specialmente durante le difficili prime cento pagine.

La parte centrale della scrittura di un romanzo è caratterizzata da quello che Smith chiama “Pensiero magico del mezzo del romanzo”. Questo non è un punto geografico, ma uno “stato d’animo” in cui “nulla al mondo esiste tranne il tuo libro”. Il tempo si comprime, la realtà esterna si fonde con la finzione, e ogni conversazione sul bus o storia di giornale sembra “direttamente rilevante per il tuo romanzo”. Questo stato, pur rendendo lo scrittore “pazzo”, “rende tutto possibile”. Problemi strutturali “incredibilmente complessi” si risolvono con “facilità ispirata”, e le coincidenze più incredibili sembrano accadere per la sola scrittura (come l’aneddoto di John Baguley, il nome di un personaggio che compare sul suo boiler).

Ma così come si costruisce, bisogna anche “smantellare l’impalcatura”. L’impalcatura, che assume molte forme (divisioni in capitoli, sezioni basate su testi sacri, film, discorsi politici, album musicali), è necessaria per sostenere la fiducia dello scrittore, ridurre la disperazione e dare un senso di direzione a un viaggio altrimenti “infinito”. Tuttavia, una volta che il libro è stampato, ci si rende conto che gran parte di essa non era necessaria e che il libro sarebbe “molto migliore senza di essa”. Il consiglio di Smith è quindi di costruire l’impalcatura se serve, ma di “non dimenticare di smontarla più tardi”.

Rileggendo le prime venti pagine del romanzo nella fase finale, Smith le trova “folli, più fitte di tonno in scatola”. Questa rilettura le rivela una “poca fiducia nel lettore”. Lo scrittore tende a “imboccare” il lettore con ogni dettaglio e retroscena, non fidandosi della sua pazienza o intelligenza, nonostante il lettore possa aver letto opere complesse come Thomas Bernhard o Finnegans Wake. Questa è l'”altalena della frode letteraria”, dove lo scrittore non riesce a decidere se è lui o il lettore l’idiota fraudolento.

La costruzione del personaggio è un altro aspetto in cui l’inizio è spesso ingannevole: il terrore di formare persone da clausole grammaticali viene nascosto dietro una “cortina fumogena di elaborata costruzione di frasi”, come se il personaggio potesse essere estratto “forzatamente” da aggettivi accumulati. In realtà, il personaggio emerge con le “pennellate più leggere” e può essere altrettanto facilmente distrutto. L’esempio di Odradek di Kafka, una creatura di una singola pagina più memorabile di personaggi su cui Smith ha lavorato per anni, sottolinea la delicatezza della vera caratterizzazione.

Per una Micro Manager come Smith, l’ultimo giorno di scrittura è “veramente l’ultimo giorno”. Poiché modifica man mano, non ha bozze multiple, ma una sola, che, una volta completata, è finita. Questo momento le porta una felicità che la “spoglia completamente di aggettivi”, un’esperienza così straordinaria da essere, a volte, la “ragione principale per scrivere romanzi”. Eppure, dopo questa euforia, arrivano le “bozze: la crudeltà insopportabile”. Le bozze rappresentano la “landa desolata dove il sogno del tuo romanzo muore e la fredda realtà si afferma”. Vedere le pagine segnate dal copy editor induce un desiderio di “ricominciare da capo”, ma la “profonda stanchezza” impedisce ogni ulteriore volontà. Le bozze sono la prova che “è già troppo tardi”. L’unico “prova felice” che Smith abbia mai visto è il manoscritto di The Waste Land di T.S. Eliot con le annotazioni di Ezra Pound, un “estraneo molto intelligente”. Questo porta alla domanda retorica: “Dove sono andati tutti gli estranei intelligenti?”, sottolineando il bisogno dello scrittore di una prospettiva esterna acuta.

Il consiglio più prezioso che Smith offre, l’unico “assolutamente placcato d’oro 24 carati,” è il numero otto: “allontanati dal veicolo”. Una volta finito il romanzo, se non si ha una necessità economica immediata, lo si dovrebbe mettere in un cassetto per il più a lungo possibile, idealmente un anno o più, ma anche solo tre mesi. Il segreto per modificare il proprio lavoro è semplice: “devi diventare il suo lettore invece del suo scrittore”. Lo stato d’animo perfetto per modificare un romanzo è “due anni dopo la sua pubblicazione, dieci minuti prima di salire sul palco di un festival letterario”. In quel momento, ogni frase ridondante, ogni metafora inutile, ogni pezzo “morto”, ogni “stupidità, vanità e tedio” diventano “fastidiosamente ovvi”. Questo vale anche per gli editori professionisti, che dopo aver letto un manoscritto più volte, smettono di vederlo. Serve la mente di uno “straniero intelligente che lo prende da uno scaffale e inizia a leggere,” e bisogna “dimenticare di aver mai scritto quel libro”. L’aneddoto di Alan Hollinghurst, che ha lasciato il suo romanzo The Line of Beauty per “molto tempo” e ci ha lavorato per cinque anni, corrobora questo consiglio fondamentale.

Anni dopo la pubblicazione, Smith trova estremamente difficile rileggere i suoi libri. Il suo primo romanzo, White Teeth, le provoca ancora “nausea”, e la sensazione è “distante, disconnessa”. Tuttavia, con The Autograph Man, ha provato qualcosa di nuovo: sorpresa. Rileggendolo in un aeroporto, ha trovato il libro “genuinamente strano”, con intere pagine che non riconosceva o non ricordava di aver scritto. Questa estraneità ha dissipato l’animosità, lasciando una “tregua neutra”. Leggendo On Beauty per la preparazione della lezione, ha sperimentato la solita nausea e la sensazione di frode, ma anche “qualcos’altro, qualcosa di nuovo”. In “tasche molto isolate”, ha avuto la sensazione che “questa riga, quel paragrafo, fossero esattamente quello che intendevo scrivere, e il fatto era, li avevo scritti, e mi sentivo a posto, mi sentivo bene, persino”. Questa sensazione di accettazione e di accordo con la propria intenzione originale, pur se in frammenti, è ciò che Smith raccomanda a tutti.

Le riflessioni di Zadie Smith sul mestiere dello scrittore sono un raro esempio di candore e auto-analisi. Dal tormento dell’OPD alla gioia quasi mistica della chiusura, dalla necessità delle “parole altrui” come ponte e punto di partenza per il ripudio, alla riscoperta di un’onestà profonda nella scrittura, Smith svela la complessa psicologia che anima il processo creativo. La sua insistenza sulla natura non codificabile della “craft” e sull’importanza di diventare un “lettore intelligente” del proprio lavoro sono moniti potenti per ogni aspirante scrittore. Il saggio di Smith non è una guida di regole, ma una testimonianza vissuta della lotta, dell’evoluzione e, alla fine, della potenziale accettazione della propria, unica, opera, un’esperienza che culmina in quel “sentirsi a posto” che, pur raro, rende l’intera fatica degna di essere vissuta.

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