Zadie Smith e l’arte del fallimento onorevole

Nel suo saggio del 2007 “Scrivere: onorevoli fallimenti e doveri del lettore”, Zadie Smith ci invita a una riflessione audace e spesso scomoda sulla natura della creazione letteraria e della sua ricezione. L’autrice si interroga su cosa renda un buon scrittore, sul dovere dei romanzieri e dei lettori, e sulla ragione della rarità di romanzi veramente grandi, proponendo una visione in cui la letteratura è un’eredità di fallimenti onorevoli. Il suo ragionamento si snoda attraverso una critica delle nozioni superficiali di successo e un’analisi della profonda, intima connessione tra il “sé” dell’autore e l’opera prodotta.

Smith introduce l’argomento attraverso la “storia di Clive”, un giovane scrittore intelligente e colto, armato di teoria letteraria e strumenti artigianali, che si prefigge di scrivere il romanzo perfetto. Clive visualizza la sua “copia platonica di romanzo” e crede di poterla semplicemente trascinare dal regno dell’idea alla realtà. Tuttavia, il risultato finale è una “povera simulazione, un’ombra di un’ombra”, che ha perso la sua “aura di perfezione” nel passaggio dal sogno al reale. L’incapacità di Clive di rendere autenticamente il suo personaggio, Maria Gomez – una corrotta economista ispanica – non è una questione di parole o di conoscenza economica, ma piuttosto una difficoltà ineffabile di “entrare nella sua camicetta di seta” o “sotto la sua pelle”. Ancora più significativo è il suo desiderio di scrivere in modo intelligente e aforistico sul “Matrimonio” con la M maiuscola, piuttosto che sul matrimonio specifico di Maria, un compito che gli sembra improvvisamente “monumentalmente complesso” se dovesse pensare al proprio.

Nonostante queste profonde sensazioni di “non-verità” e “auto-tradimento”, il romanzo di Clive viene ben accolto dalla critica, che si concentra sui difetti superficiali come “eccessi” o “passaggi pomposi”. Clive stesso finisce per difendere il suo lavoro, quasi dimenticando il suo senso iniziale di fallimento. Questa narrazione serve a illustrare come la verità del giudizio sul successo o fallimento letterario si perda tra la “necessaria superficialità di un critico e la naturale disonestà di uno scrittore”.

Smith sostiene che la scrittura è un “mestiere che sfida l’artigianato”, poiché la sola abilità non rende un romanzo grande. A differenza di un abile falegname o calzolaio, uno scrittore abile raramente produce libri buoni e quasi mai grandi. Esiste un “elemento canaglia”, che Smith chiama il “sé” (o l’anima, in tempi meno “metafisicamente sfidati”), che si frappone tra l’ideale platonico del romanzo e il romanzo reale. È questo “sé petulante, vanitoso, illuso, miope, codardo, compromesso” che i critici raramente affrontano, ma che gli scrittori riconoscono come la vera fonte dei loro fallimenti.

Per Smith, il fallimento letterario non è semplicemente un difetto di linguaggio o di design, ma spesso ha una dimensione etica, rivelando o tradendo il “sé migliore o peggiore” dello scrittore. È questa “parte intima del fallimento letterario” che è così interessante: privata, difficile da esprimere, facile da ridicolizzare, ma nonostante tutto, vera.

Smith enfatizza che, sebbene gli scrittori non abbiano una conoscenza superiore della qualità del proprio lavoro, possiedono una conoscenza diversa rispetto a professori o critici. Questa “intuizione del praticante” è unica e spesso vale la pena ascoltarla. Basandosi su critici-autori come Virginia Woolf e Iris Murdoch, Smith afferma che lo stile non è solo una questione di sintassi fantasiosa o un mero abbellimento. Piuttosto, lo stile è “l’espressione della personalità nel suo senso più ampio”, la “maniera di essere nel mondo” di uno scrittore, la “traccia inevitabile di quella maniera”. Visto in questi termini, lo stile diventa una “necessità personale”, l’unica possibile espressione di una particolare coscienza umana, ed è il modo di uno scrittore di dire la verità. Il successo o il fallimento letterario, secondo questa misura, dipende non solo dalla raffinatezza delle parole su una pagina, ma dalla “raffinatezza di una coscienza”, che Aristotele chiamava “l’educazione delle emozioni”.

Per rafforzare la sua tesi sulla centralità del sé, Smith si confronta con la celebre posizione di T.S. Eliot nel suo saggio “Tradizione e talento individuale” del 1919. Eliot, con la sua “autorità imperiosa”, sosteneva che la personalità dell’autore fosse irrilevante per la poesia, che era invece “un’evasione dall’emozione” e “un’evasione dalla personalità”. Egli paragonava l’artista a un catalizzatore che, come il platino nella reazione chimica, facilita una ricombinazione significativa senza lasciare traccia di sé. Questa analogia ha liberato i critici a condurre una critica “non-biografica”.

Smith, tuttavia, argomenta che l’analogia di Eliot “semplicemente non va bene” per gli scrittori di narrativa, che hanno “sé oltre che tradizioni da comprendere e assimilare”. Nonostante Eliot stesso volesse separare la sua complessa vita privata dalla sua poesia, Smith sottolinea che la sua opera era profondamente “inflettuta dal suo carattere” e dalle sue convinzioni. La scelta stessa di una tradizione (ad esempio, preferire Milton a Molière) costituisce una delle informazioni più personali su un autore. Il “sé non è come il platino – lascia tracce ovunque”.

Il saggio poi approfondisce il concetto di scrittura come “auto-tradimento” e “inautenticità”. La scrittura, secondo Smith, è sempre un “tentativo di rivelazione” di un sé elusivo e multiforme, ma la sua rivelazione totale è una “impossibilità chimerica”. Come per le forme di Platone, abbiamo un’idea di una rivelazione totale della verità, ma non riusciamo a realizzarla. Ogni scrittore, quindi, fa un “compromesso con il sé” e con la verità, un compromesso che spesso si traduce nella sensazione di Prufrock: “Non è affatto così… non è quello che intendevo affatto…”.

L’autrice collega questo senso di fallimento all’inautenticità, definendola come “lavoro fatto per quello che Heidegger chiamava ‘Das Mann'”, l’indeterminato “Essi” che “alterano il tuo senso di giudizio”. Il cliché è l’esempio più semplice di questo tradimento: un linguaggio “usato e logoro”, una scorciatoia che palesa una pigrizia e un’incapacità di esprimere la propria “visione intima”. È un fallimento estetico ed etico, perché non si è “detto la verità”. La ragione principale per cui si scrive è “per non sonnambulare per tutta la vita”, ma per molti scrittori interi paragrafi, personaggi o libri possono essere descritti come “inautentici”, frutto di un “sonnambulismo”.

La Smith poi affronta la questione spinosa del “dovere letterario”. Nell’attuale mercato letterario, si tende a considerare il dovere dello scrittore come quello di “piacere ai lettori” e di “intrattenere”, di essere chiaro, interessante e di “buon gusto”, fornendo una narrazione “generalizzata” e riconoscibile. Tuttavia, Smith non considera queste qualità essenziali all’esperienza centrale della finzione.

Per lei, gli scrittori hanno un solo dovere: “il dovere di esprimere accuratamente il proprio modo di essere nel mondo”. Questo processo è principalmente di “eliminazione”: rimuovere il linguaggio morto, i dogmi di seconda mano, le verità non proprie, gli slogan e le bugie che distorcono l’esperienza. Ciò che rimane è “qualcosa che approssima la verità della propria concezione”, “la verità di una persona nella misura in cui può essere resa attraverso il linguaggio”. Questa “verità fittizia” non è autobiografia, ma una “questione di prospettiva”, il “watermark del sé” che attraversa ogni cosa che si fa, il “linguaggio come rivelazione di una coscienza”.

Il saggio di Smith non si ferma al dovere dello scrittore, ma si estende al dovere del lettore, definendo il romanzo come una “strada a doppio senso” in cui il lavoro richiesto da entrambe le parti è, in fondo, uguale. La lettura, fatta correttamente, è “dura quanto la scrittura” e non è un’esperienza passiva come guardare la televisione, ma piuttosto analoga a un musicista dilettante che esegue uno spartito, richiedendo “abilità acquisite con fatica”.

Il lettore ideale deve possedere “molto talento” ed essere abbastanza aperto da permettere alla propria mente una “immagine di coscienza umana così radicalmente diversa dalla propria da essere quasi offensiva per la ragione”. I lettori falliscono gli scrittori quando credono che la finzione serva solo a confermare la propria versione del mondo. Il grande piacere della finzione risiede invece nella “varietà” dei modi in cui le grandi opere d’arte “articolano l’esperienza e ci costringono a essere attenti, svegliandoci dal sonnambulismo delle nostre vite”. Un grande pezzo di finzione può costringerci ad accettare la realtà di una “proposizione più selvaggia”, o a riconoscere l’alterità radicale in ciò che sembra più familiare. “La grande scrittura ti costringe a sottometterti alla sua visione”.

Il saggio si conclude tornando al “sogno del romanzo perfetto”, un sogno che “causa solo caos e miseria” perché la rivelazione totale della verità dell’esperienza è “impossibile”. È per questo che i romanzi veramente grandi sono così rari, richiedendo un “genio” e un “integrità estetica ed etica” quasi inimmaginabili. Tuttavia, Smith rassicura che non c’è motivo di disperare. Il canone letterario è in realtà la “storia del second’ordine, l’eredità dei fallimenti onorevoli”. Qualsiasi scrittore dovrebbe essere orgoglioso di unirsi a questa lista, e ogni lettore dovrebbe ritenersi fortunato di leggerli. L’arte non è nel monumento del compimento, ma nel “tentativo”, in quel difficile lavoro intellettuale ed emotivo di “comprendere ciò che è al di fuori di noi usando solo ciò che abbiamo dentro di noi”. Questo, ribadisce Smith, è sia il dovere dello scrittore che quello del lettore.

Zadie Smith ridefinisce il successo letterario non come il raggiungimento di una perfezione irraggiungibile o il mero intrattenimento del pubblico, ma come un atto profondamente personale e spesso frustrante di ricerca della verità interiore, un tentativo di esprimere il proprio modo unico di essere nel mondo. Allo stesso tempo, eleva il ruolo del lettore, invitandolo a un impegno attivo e talentuoso con la diversità delle coscienze, sfidando le proprie preconcezioni e abbracciando l’alterità. È in questo incessante, e spesso imperfetto, sforzo condiviso tra scrittore e lettore che risiede la vera magia e il valore duraturo della letteratura.

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