Il manifesto di Annie Dillard per la creazione autentica e incessante

Il saggio “Scrivi fino all’ultima goccia” (Write Till You Drop) di Annie Dillard non è una semplice guida pratica, ma un vero e proprio manifesto che esorta alla dedizione totale, alla scoperta dell’unicità interiore e a una perseveranza implacabile di fronte alle intrinseche sfide del processo creativo. Dillard demolisce le nozioni comuni sulla scrittura, invitando il lettore a un confronto radicale con la propria vocazione e con l’atto stesso della creazione artistica. Attraverso metafore potenti, aneddoti illuminanti e consigli diretti, l’autrice delinea una visione della scrittura come un atto di coraggio, una ricerca incessante di verità e bellezza che trascende la mera espressione per toccare il regno del significato più profondo.

Il punto di partenza della filosofia di Dillard è la ricerca del soggetto unico. Mentre “le persone amano più o meno le stesse cose migliori”, uno scrittore alla ricerca di argomenti non si interroga su ciò che ama di più in generale, ma su “ciò che lui solo ama affatto”. Questo implica una profonda introspezione per scoprire quelle “strane crisi” o fascinazioni idiosincratiche che ci assalgono, quel qualcosa che troviamo interessante “per una ragione difficile da spiegare”. È proprio questa inspiegabilità che indica la strada: è difficile da spiegare “perché non l’avete mai letto su alcuna pagina”. Ed è qui che lo scrittore deve iniziare. Dillard sottolinea che “siete stati fatti e posti qui per dare voce a questo, al vostro stesso stupore”. Questo è un invito a cogliere e celebrare la propria individualità percettiva. A questa ricerca del soggetto unico si lega indissolubilmente l’imperativo di scrivere “come se stessi per morire”, assumendo contemporaneamente di scrivere per un pubblico composto unicamente da malati terminali. Questa prospettiva radicale serve a eliminare ogni superficialità e trivialità dalla scrittura. La domanda retorica, “Che cosa iniziereste a scrivere se sapeste di morire presto? Che cosa potreste dire a una persona morente che non la farebbe infuriare per la sua trivialità?”, funge da potente filtro, costringendo lo scrittore a distillare la verità più essenziale e significativa che possiede. L’atto della scrittura diventa così un esercizio di purificazione, un tentativo di eliminare tutto ciò che è superfluo per lasciare solo ciò che ha un peso e un impatto autentico.

Un altro pilastro della visione di Dillard riguarda l’ambiente e la formazione intellettuale dello scrittore. Contrariamente all’idea comune che per scrivere bene si debba essere costantemente immersi nel mondo, Dillard afferma con decisione che “lo scrittore studia la letteratura, non il mondo”. Lo scrittore, pur vivendo nel mondo, non può mancarlo; se ha mai acquistato un hamburger o preso un aereo, risparmia ai suoi lettori un resoconto di tali esperienze. Invece, è fondamentale che lo scrittore sia “attento a ciò che legge, perché quello è ciò che scriverà” e “attento a ciò che impara, perché quello è ciò che conoscerà”. Esempi come Ibsen che descrive la Norvegia da una scrivania in Italia, James Joyce che descrive Dublino da Parigi, o Willa Cather che scrive i suoi romanzi della prateria a New York City, rafforzano questa idea che la distanza fisica può, paradossalmente, affinare la prospettiva. Addirittura, si è scoperto che Walt Whitman “raramente lasciava la sua stanza”. Questa distanza favorisce una sorta di distillazione, permettendo all’artista di elaborare il mondo attraverso il prisma dell’arte stessa. Lo scrittore è paragonato a un tennista che conosce il proprio campo – “ciò che è stato fatto, ciò che potrebbe essere fatto, i limiti” – e, come l’esperto, “gioca sui bordi”. Qui risiede l’eccitazione, la possibilità di “spingere i limiti” della scrittura, avvicinandosi al punto in cui “il lettore deve tirarsi indietro. La ragione si blocca, la poesia si spezza; entra un po’ di follia, o tensione”. La vera maestria sta nell'”allargarli” e “inglobare quel potere selvaggio”. La padronanza della forma e del linguaggio è fondamentale: quando a uno scrittore fu chiesto se un giovane studente potesse essere uno scrittore, la sua risposta fu semplicemente: “Ti piacciono le frasi?”. Se al giovane fossero piaciute le frasi, “certo, avrebbe potuto iniziare, come un gioioso pittore che conoscevo”, il quale disse di essere diventato pittore perché “gli piaceva l’odore della pittura”. Questo aneddoto sottolinea che la vera passione per la scrittura risiede nell’amore per i suoi elementi costitutivi più basilari. Dillard illustra come grandi scrittori abbiano studiato e amato i modelli letterari (Hemingway, Singer, Ellison, Thoreau, Welty, Faulkner, Forster). Questo si contrappone all’arroganza di un giovane poeta che, non avendo ancora compreso che “i poeti amano la poesia, e i romanzieri amano i romanzi”, potrebbe affermare sfrontatamente di non apprezzare nessuno, amando solo “il ruolo, il pensiero di sé con un cappello”. Per Dillard, Rembrandt e Shakespeare, Bohr e Gauguin, possedevano “cuori potenti, non volontà potenti”; amavano la gamma dei materiali che usavano, le possibilità del lavoro li eccitavano, le complessità del campo accendevano la loro immaginazione. Hanno imparato i loro campi e poi li hanno amati, lavorando con rispetto, per amore e conoscenza, producendo “corpi di lavoro complessi che durano”.

Dillard argomenta energicamente a favore della scrittura di un’unica grande opera – un romanzo o una narrativa saggistica – piuttosto che molte storie o saggi. In un progetto lungo e ambizioso, si può “inserire o versare tutto ciò che si possiede e si impara”. Un progetto che richiede cinque anni accumulerà le invenzioni e le ricchezze di quegli anni, e gran parte della lettura di quegli anni alimenterà il lavoro. Inoltre, poiché “scrivere frasi è difficile qualunque sia il loro soggetto”, non è meno arduo scrivere frasi in una ricetta che in “Moby-Dick”. Pertanto, Dillard conclude provocatoriamente, “tanto vale scrivere ‘Moby-Dick'”. Questa prospettiva evidenzia la sua convinzione che la difficoltà intrinseca della scrittura giustifichi l’investimento in un’opera di vasta portata, dove la ricchezza accumulata nel tempo può trovare la sua piena espressione. Ogni opera originale, inoltre, richiede una forma unica, e quindi è più prudente “lottare con il risultato di una sola forma – quella di un lavoro lungo – che lottare con le molte forme di una raccolta”. Ciò non solo ottimizza lo sforzo creativo, ma permette una maggiore coerenza e profondità nell’esplorazione di una singola visione artistica.

Nonostante la raccomandazione di puntare a opere monumentali, Dillard riconosce che “ogni libro ha un’impossibilità intrinseca”, un difetto strutturale “proibitivo” che il suo scrittore scopre non appena l’entusiasmo iniziale diminuisce. Questo problema è insolubile, ed è il motivo per cui nessuno può mai scrivere questo libro. Ma è proprio di fronte a questa “proibitiva imperfezione strutturale” che lo scrittore persevera, “lo scrive nonostante ciò”. Trova modi per minimizzare la difficoltà, rafforza altre virtù e “a sbalzo la narrazione intera nell’aria sottile ed essa regge”. Questo ci porta alla questione fondamentale del perché leggiamo: non è forse nella speranza di “bellezza messa a nudo, vita intensificata e il suo mistero più profondo sondato?”. Lo scrittore deve essere in grado di isolare e vivificare ciò che più profondamente impegna i nostri intelletti e i nostri cuori, e di rinnovare le nostre speranze per le forme letterarie. Leggiamo perché speriamo che lo scrittore “ingrandirà e drammatizzerà i nostri giorni, ci illuminerà e ispirerà con saggezza, coraggio e la speranza di un significato, e premerà sulle nostre menti i misteri più profondi, affinché possiamo sentire di nuovo la loro maestà e potere”. Dillard critica aspramente l’idea di leggere o scrivere libri con “slogan pubblicitari e nomi di marchi”, chiedendosi il senso di ciò quando ciò che cerchiamo è un risveglio, una rivelazione della nostra condizione di “creature poste qui smarrite” di fronte a poteri come la morte o l’amore.

Il processo creativo è descritto da Dillard come un regno dove “nessuna manipolazione è possibile in un’opera d’arte, ma ogni miracolo lo è”. Gli artisti che si dedicano all’eternità o che mirano a non manipolare ma solo a esporre verità difficili, “si abituano ai miracoli”. La sensazione di scrivere un libro è paragonata a quella di “girare, accecati dall’amore e dall’audacia”, o a un pilota acrobatico che fa avvitamenti, o a un bruco che si innalza ciecamente in cerca di un percorso. Nel peggiore dei casi, “sembra una lotta con l’alligatore, a livello della frase”. Ma al suo meglio, la sensazione della scrittura è quella di “una grazia non meritata”. Questa grazia viene data allo scrittore, ma “solo se la si cerca”. Richiede uno sforzo estenuante – “cerchi, ti rompi i pugni, la schiena, il cervello, e poi – e solo allora – ti viene consegnata”. Dillard descrive questa epifania come un pacco con ali che vola direttamente verso di te, il tuo nome scritto sopra, “quella singola palla su mille che vedi al rallentatore”. Questo concetto di grazia è ripreso dalla metafora di una linea di poesia che “cade dal soffitto”, come citato da Thornton Wilder, o di una frase che si trova e si tocca “come con le pinze, trattenendo la forza, e si aspetta sospesi e feroci finché la prossima ti trova”. È un processo di scoperta e ricezione, non di pura invenzione forzata. Einstein stesso paragonò la generazione di una nuova idea a una gallina che depone un uovo: “Cip – e all’improvviso è lì”. Questo non diminuisce l’importanza dello sforzo: Dillard esorta a “spingerlo. Esaminare tutte le cose intensamente e incessantemente”. Artisti come Giacometti, con la sua “perplessità e persistenza”, e Rico Lebrun, che sosteneva che “il disegnatore deve aggredire; solo con un assalto persistente l’immagine viva capitolerà e svelerà il suo segreto a una linea implacabile”, incarnano questa ricerca di una verità nascosta che solo la tenacia artistica può svelare. L’artista è disposto a dare tutta la sua forza e vita per sondare “segreti che nessuno può descrivere se non con le deboli tracce degli strumenti”. È un atto di ammirazione e confronto incessante con il mondo, come si ammirerebbe un avversario, “senza togliergli gli occhi di dosso, o allontanarsi”.

Dillard impartisce una lezione fondamentale sulla generosità nella scrittura: “spendila tutta, sparala, giocala, perdila, tutta, subito, ogni volta”. Non si deve accumulare ciò che sembra buono per un posto successivo nel libro o per un altro libro; “dallo, dallo tutto, dallo ora”. L’impulso di salvare qualcosa di buono per un posto migliore più tardi è il segnale per spenderlo adesso, perché “qualcosa di più sorgerà per dopo, qualcosa di meglio”. Le idee, le ispirazioni, si riempiono “da dietro, da sotto, come l’acqua di pozzo”. Allo stesso modo, l’impulso di tenere per sé ciò che si è imparato non è solo vergognoso, ma è distruttivo: “Tutto ciò che non dai liberamente e abbondantemente ti viene perso”. Questa etica della generosità e del non-accumulo è un testamento alla fede di Dillard nell’abbondanza della creatività, una fonte inesauribile che si rinnova attraverso il dare. Questa visione culmina nel potente aneddoto di Michelangelo che, dopo la sua morte, fu trovato un biglietto nel suo studio indirizzato al suo apprendista: “Disegna, Antonio, disegna, Antonio, disegna e non perdere tempo”. Questa è l’esortazione finale: un richiamo all’azione incessante, alla pratica instancabile, alla dedizione totale che definisce la vita dell’artista autentico.

“Scrivi fino all’ultima goccia” di Annie Dillard non è solo un manuale, ma un profondo viaggio nella psiche dello scrittore e nel mistero dell’arte. Dillard ci spinge a cercare la nostra voce unica e inspiegabile, a scrivere con un senso di urgenza mortale, a immergerci nella letteratura come nostro vero campo di studio, a perseguire opere ambiziose e complesse nonostante le loro “impossibilità intrinseche”. Ci invita a riconoscere la scrittura come un atto di grazia guadagnata attraverso la persistenza e lo sforzo incessante, un sondaggio ostinato dei segreti più profondi. Soprattutto, Dillard esorta alla generosità assoluta con il proprio lavoro, a dare tutto immediatamente, confidando che l’ispirazione si rinnoverà. È un richiamo a una vita di dedizione senza compromessi all’arte, un invito a “disegnare, Antonio, disegnare, Antonio, disegnare e non perdere tempo”, perché è in questo impegno totale che risiede la possibilità di creare qualcosa che duri e che, come la bellezza o la saggezza, ci risvegli alla maestà della nostra stessa esistenza.

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