L’Albania comunista: un caso unico nel blocco orientale

L’Albania, spesso considerata il più piccolo, povero e militarmente meno potente tra gli Stati balcanici, nonché il meno sviluppato dal punto di vista industriale, offre una storia politica ricca e peculiare. Il periodo comunista, in particolare, la rende un esempio emblematico delle dinamiche interne al blocco sovietico e delle immense difficoltà che può comportare il passaggio da un sistema totalitario ad uno democratico e capitalista. La storia del Paese nel dopoguerra è una narrazione di isolamento progressivo e di un’inflessibile adesione a una visione dura e pura del comunismo, con conseguenze profonde per la sua popolazione.

La narrazione della storia dell’Albania comunista inizia alla fine del 1944, con la liberazione dal nazifascismo. A differenza di molti altri Stati balcanici, la cui liberazione fu dovuta a una combinazione di movimenti partigiani interni e all’avanzata dell’Armata Rossa, in Albania il processo assunse una forma particolare. Sebbene anche qui i movimenti partigiani fossero attivi, molte delle formazioni non comuniste finirono per compromettersi, stringendo alleanze ondivaghe o addirittura collaborando con gli invasori nazisti in funzione anticomunista. Questo lasciò il Partito Comunista Albanese, o Movimento di Liberazione Nazionale, guidato da Enver Hoxha, come l’unica forza partigiana con un significativo seguito popolare e, soprattutto, l’unica a potersi presentare agli Alleati, in primis all’Unione Sovietica, come autentica forza di resistenza antifascista.

Apriamo una breve parentesi sul vero protagonista di questa storia. Figura austera, carismatica e impenetrabile, Enver Hoxha ha segnato in modo indelebile il destino dell’Albania nel secondo Novecento. Per oltre quarant’anni è stato il volto e la mente del potere assoluto, incarnando un’idea di Stato che fondeva rigore ideologico, chiusura verso l’esterno e totale controllo sulla società. Più che un semplice leader politico, Hoxha fu l’artefice di un esperimento sociale unico nel panorama europeo: costruire un comunismo puro, isolato e autarchico, in una piccola nazione ai margini del continente. La sua figura evoca insieme il culto del capo, la disciplina militare e la fede granitica in un’ideologia senza compromessi. Era un uomo che parlava poco in pubblico, ma che scriveva e vigilava con attenzione su ogni aspetto della vita del Paese. Il suo pensiero politico era radicato nel marxismo-leninismo più ortodosso, modellato sull’esempio di Stalin, e rafforzato da un nazionalismo intransigente. Hoxha non si fidava di nessuno, né degli alleati, né dei suoi stessi collaboratori. Per questo, dietro la facciata della costruzione socialista, la sua leadership fu anche costellata da epurazioni, isolamento e repressione. Non si può comprendere l’Albania comunista senza comprendere la personalità di Hoxha: un uomo capace di trasformare un Paese arretrato in una nazione industrializzata, ma anche di spegnerne ogni libertà; di costruire scuole, ospedali e infrastrutture, ma allo stesso tempo di erigere muri invalicabili tra il popolo e il mondo esterno. Enver Hoxha è stato, in definitiva, l’incarnazione di un’utopia vissuta come dogma: assoluta, totalizzante, e destinata a durare oltre la sua stessa vita.

Torniamo alla fine del 1944, anno in cui l’Albania divenne fin da subito uno Stato a guida comunista, senza passare per governi di coalizione come accadde altrove. Le prime riforme, di stampo marcatamente comunista, furono implementate persino prima della fine della guerra. Tra il 1945 e il 1946, fu avviata una massiccia redistribuzione delle terre, espropriate sia agli italiani e ai tedeschi che a un centinaio di grandi proprietari terrieri albanesi che, prima del conflitto, detenevano circa un terzo del territorio nazionale. Enver Hoxha consolidò rapidamente il suo potere, accumulando su di sé le cariche di presidente, primo ministro e ministro degli esteri, e il suo controllo fu ufficialmente sanzionato all’inizio del 1946, con elezioni che portarono alla formazione di un parlamento interamente comunista.

L’Albania intraprese un ambizioso processo di modernizzazione, puntando sull’innovazione e l’alfabetizzazione, con l’obiettivo di trasformare un Paese che era entrato nella Seconda Guerra Mondiale come il più povero, il meno alfabetizzato e, in generale, il meno “europeo” tra tutti gli Stati balcanici.

Mentre le riforme interne godevano di ampia coesione all’interno del partito, la politica estera si rivelò molto più complessa, in particolare nei rapporti con la vicina Jugoslavia di Tito. La Jugoslavia aveva offerto un aiuto determinante all’Albania durante la guerra di liberazione e continuò a sostenerla nei mesi successivi alla nascita della nuova Repubblica, fornendo denaro, aiuti economici e soprattutto cibo, risorse vitali per un Paese in difficoltà.

Tuttavia, questo aiuto aveva un prezzo, concretizzatosi in una serie di concessioni sia in politica interna che estera. Internamente, furono confermati gli accordi bellici che prevedevano che i territori a maggioranza albanese, come il Kosovo, che prima della guerra facevano parte del Regno di Jugoslavia, sarebbero rimasti alla nuova Repubblica Jugoslava, ricevendo solo una certa autonomia all’interno della confederazione. Questa clausola non era certo popolare in Albania. Esternamente, la Jugoslavia, pur acquistando materie prime albanesi, sfruttava il suo peso economico per agire come rappresentante di fatto dell’Albania in politica estera.

Questa situazione generava malumore in Albania e in particolare in Enver Hoxha, che cercò più volte di trovare partner alternativi alla Jugoslavia. La Jugoslavia, forte del suo peso, arrivò a finanziare una fazione pro-jugoslava all’interno dello stesso Partito Comunista Albanese, guidata da Koçi Xoxe, che tra il 1947 e il 1948 divenne un uomo sempre più influente nel Paese. Nonostante Hoxha riuscisse a mantenere la sua posizione, molti dei suoi collaboratori furono accusati, imprigionati e spesso giustiziati, quasi a volerlo isolare politicamente.

A salvare Hoxha fu, paradossalmente, un evento di politica internazionale: lo strappo tra Tito e Stalin nel giugno del 1948. La Jugoslavia fu espulsa dal consesso delle nazioni comuniste, e questo permise a Hoxha, con il pieno appoggio di Stalin e dell’Unione Sovietica, di riprendere saldamente il potere in Albania. Xoxe fu imprigionato, processato e ucciso, e lo Stato, che per un anno aveva rischiato di sfuggire al controllo di Hoxha, si trasformò in una dittatura nelle sue mani.

Con il sostegno dei suoi più fidati collaboratori, tra cui Mehmet Shehu, Hoxha guidò l’Albania verso una stretta partnership commerciale e militare con l’Unione Sovietica. Egli coltivò relazioni dirette con Stalin e si impegnò a esportare lo stalinismo in Albania, accentrando sempre più il potere e promuovendo riforme sia economiche che, soprattutto, politiche in questa direzione.
L’Unione Sovietica prese il posto della Jugoslavia come principale finanziatore della crescita albanese, disponendo di maggiori risorse economiche, materiali e tecnologie. Questo portò l’Albania a conoscere una significativa crescita economica negli anni ’50, che permise una parziale industrializzazione e un notevole aumento dell’alfabetizzazione. Furono aperte nuove università, aumentando il numero di laureati e specialisti, grazie anche agli aiuti culturali dall’Unione Sovietica, che inviò esperti e insegnanti in vari campi. L’implementazione di piani quinquennali, il primo dei quali varato nel 1951 sul modello sovietico, contribuì a questa progressiva crescita.

L’Albania aveva inizialmente cercato di mantenere relazioni minime con gli Stati occidentali dopo la guerra, disposta ad accettare aiuti da chiunque data la sua condizione. Tuttavia, questi aiuti cessarono rapidamente, in parte perché l’Albania si rifiutò di accettare diplomatici da Inghilterra e Stati Uniti. Si può affermare che questa reticenza fosse fondata: Inghilterra e Stati Uniti, infatti, continuavano a sostenere movimenti anticomunisti in Albania, considerandola un “ventre molle” nei Balcani in mano all’URSS. Cercarono ripetutamente di inviare agenti, sobillatori e gruppi di ribellione per destabilizzare il regime dall’interno, spesso con l’appoggio dell’ex sovrano albanese, re Zog. Hoxha, tuttavia, riuscì a impedire ogni infiltrazione, grazie all’aiuto dei servizi segreti sovietici, che gli fornirono dossier sugli infiltrati. Ciò permise a Hoxha di scatenare una vera e propria caccia all’uomo che portò, negli anni, all’accusa, imprigionamento, tortura e spesso condanna a morte di quasi cinquemila persone.

Questo rapporto “idilliaco” tra l’Albania di Hoxha e l’Unione Sovietica di Stalin si interruppe bruscamente nel 1953 con la morte di Stalin. Il suo successore, Nikita Krusciov, avviò un’opera di “destalinizzazione”, ovvero la progressiva cancellazione dell’eredità politica di Stalin, inizialmente lenta e poi sempre più accelerata. Questa politica fu accolta molto negativamente da Hoxha, sia per motivi politici che dottrinali. Egli si considerava un puro stalinista, convinto che quella fosse l’unica e vera linea comunista. Inoltre, Krusciov cercò di riaprire i rapporti con gli alleati che Stalin aveva allontanato, a cominciare dalla Jugoslavia di Tito. Questo tentativo di sanare i rapporti tra l’Albania e la Jugoslavia fu inaccettabile per Hoxha, che continuava a considerare Tito un “eretico comunista”.
Nonostante le tensioni, per alcuni anni i rapporti tra Albania e Unione Sovietica continuarono, e l’Albania entrò anche nel Patto di Varsavia, continuando a ricevere aiuti da Krusciov. Tuttavia, il rapporto si raffreddò progressivamente, gli aiuti sovietici diminuirono, e la propaganda albanese iniziò a guardare con sospetto sia alla Jugoslavia che all’Unione Sovietica stessa.

Fu in questo contesto che Hoxha trovò un nuovo alleato nella Cina. Verso la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, le due maggiori potenze comuniste, l’URSS e la Cina, iniziarono un violento raffreddamento dei rapporti che portò a una vera e propria spaccatura, protrattasi fino al 1991. Hoxha vide in questa rottura l’opportunità di sostituire l’Unione Sovietica come partner commerciale dell’Albania con la Cina.

Nel 1960, furono siglati accordi che portarono l’Albania nell’orbita cinese. La Cina promise di coprire il 90% degli aiuti economici che prima provenivano dall’Unione Sovietica, e l’Albania divenne a tutti gli effetti una rappresentante della Cina in Europa e alle Nazioni Unite. Questa mossa, che Hoxha considerava una dimostrazione di forza politica, si rivelò tuttavia un mezzo disastro dal punto di vista economico. Se l’Unione Sovietica aveva rappresentato un mercato valido e un’ottima destinazione per l’export albanese, la Cina, nonostante le promesse, non riuscì a sostituire pienamente l’URSS in termini di materiali, denaro e qualità degli aiuti. L’industria cinese, negli anni ’60 e ’70, era ancora lontana dallo sviluppo.

Il risultato fu che l’Albania fu costretta a un regime di austerità. La crescita economica, già non particolarmente accentuata, iniziò a rallentare e la situazione nel Paese peggiorò progressivamente. Nel tentativo di rinvigorire la crescita, nel 1967 Hoxha lanciò una nuova Rivoluzione Culturale anche in Albania, ispirandosi a quella di Mao in Cina. Questa rivoluzione mirava a cambiare i costumi della popolazione, in particolare promuovendo il ruolo della donna, che era stato molto marginale, verso standard più “occidentali”. Ma soprattutto, la rivoluzione si accanì contro la religione, che, seppur in un Paese comunista e laico per definizione, era stata fino a quel momento abbastanza tollerata. Dal 1967, i luoghi di culto, che fossero moschee o chiese, vennero profanati, trasformati in stalle o depositi, e la popolazione, pur mantenendo ufficialmente la libertà di culto, fu spinta a rinunciare a ogni forma di pratica religiosa.

Anche il legame con la Cina si rivelò fragile. Ancora una volta, la visione politica di Hoxha non tollerò i mutamenti nella realtà cinese. Nel 1972, la Cina iniziò a riaprire le relazioni con gli Stati Uniti, una politica di riavvicinamento culminata con la famosa visita di Nixon in Cina. Questo sviluppo fu inaccettabile per Hoxha. I giornali e le radio albanesi non ne parlarono affatto inizialmente, e poi l’Albania si allontanò progressivamente da Pechino. Nel 1978, la Cina interruppe a sua volta tutti gli aiuti economici.

L’Albania si ritrovò così in un isolamento quasi totale. La sua storia di alleanze si può sintetizzare in un modello ricorrente: aiuti dalla Jugoslavia interrotti per motivi politici, aiuti dall’Unione Sovietica interrotti per motivi politici, e infine aiuti dalla Cina interrotti per motivi politici. Il Partito Comunista Albanese, forte della sua visione “dura e pura”, si era progressivamente allontanato da tutti coloro che mostravano aperture verso il mondo occidentale o che avrebbero potuto aiutarlo a crescere. Il sogno di Enver Hoxha di trasformare l’Albania in un moderno stato industriale si rivelò impossibile senza gli aiuti esterni, poiché i suoi alleati precedenti l’avevano sempre considerata principalmente una nazione produttrice di materie prime.

Con la cessazione degli aiuti cinesi, la situazione economica del Paese non poté che peggiorare. Nonostante alcuni tentativi negli anni ’80 di aprirsi agli Stati vicini come Grecia e Italia, l’economia precipitò progressivamente. L’Albania perse gran parte della sua forza produttiva, la popolazione iniziò a soffrire la fame, vi fu una grave carenza di materie prime e di parti meccaniche, e in generale il Paese scivolò nel caos.

Nonostante la profonda crisi economica e il progressivo declino, il regime albanese dimostrò una sorprendente resilienza. L’Albania rimase uno dei pochi Stati al mondo dove le statue di Stalin continuavano a essere erette e mantenute, un simbolo della sua intransigente adesione al comunismo. Questa resilienza si protrasse almeno fino all’inizio degli anni ’90.

Tuttavia, il capo indiscusso del regime non resistette altrettanto a lungo. Nel 1981, sentendo l’avanzare della vecchiaia e indebolito da una malattia, Enver Hoxha decise di nominare un successore: Ramiz Alia, un uomo che riteneva a lui molto affine politicamente. Questa successione, tuttavia, scatenò un forte malumore tra gli uomini che gli erano stati più vicini e che forse ambivano a succedergli, tra cui Mehmet Shehu. Nel 1981, Shehu fu condannato per aver osato criticare Hoxha, e fu costretto al suicidio o, secondo alcune fonti, fu ucciso. Nel 1983, le condizioni di Hoxha peggiorarono ulteriormente, e Alia divenne di fatto l’uomo forte del Paese, assumendo poi ufficialmente i ruoli di presidente, primo ministro e capo del partito alla morte di Enver Hoxha nel 1985.

Alla fine di questo lungo capitolo della sua storia, l’Albania si presentava come un Paese in profonda crisi, indebolito e impoverito, che aveva progressivamente chiuso ogni via d’aiuto. La sua sopravvivenza era stata garantita da una dittatura estremamente sanguinosa, che aveva causato circa 5.000 morti, migliaia di scomparsi e altrettanti morti in prigionia, un numero sproporzionato per un paese di dimensioni così contenute. Sebbene si preparasse a un difficile ritorno alla democrazia, gli anni ’90 avrebbero riservato all’Albania ancora molti problemi e ben poca pace. Nonostante le sue dimensioni, la storia dell’Albania comunista rimane un esempio complesso e affascinante delle dinamiche politiche e sociali dei Balcani.

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