L’11 settembre cileno: 50 anni dal colpo di Stato che oscurò la democrazia

L’11 settembre 1973 rappresenta una ferita profonda nella storia del Cile e dell’intero continente latinoamericano. Quel giorno, il generale Augusto Pinochet guidò un violento Colpo di Stato militare che pose fine all’esperienza di governo di Salvador Allende, primo presidente socialista eletto democraticamente nella storia del Paese. Con il sostegno attivo degli Stati Uniti, che vedevano nel progetto politico di Allende una minaccia all’ordine capitalista occidentale in piena Guerra Fredda, il golpe non fu solo un attacco a un singolo governo, ma il brutale smantellamento di un’idea di cambiamento sociale e di giustizia.

La democrazia cilena, una delle più stabili del continente fino a quel momento, fu spazzata via in poche ore. Il bombardamento del palazzo presidenziale de La Moneda, con Allende che scelse di non abbandonare il suo incarico fino all’ultimo respiro, divenne il simbolo tragico di un’intera nazione che vedeva svanire, sotto le bombe, le sue speranze di trasformazione pacifica. Iniziò così una delle dittature più dure e longeve del XX secolo, durata 17 anni, segnata da repressione sistematica, torture, esecuzioni sommarie, desaparecidos e l’annientamento di ogni forma di opposizione politica. Il Colpo di Stato cileno fu anche un segnale inquietante per tutta l’America Latina: aprì una lunga stagione di governi militari imposti con la forza, spesso sostenuti dalle potenze occidentali, in nome della “lotta contro il comunismo”.

Cinquant’anni dopo, i fantasmi di quel giorno continuano a vivere nella memoria collettiva. Le ferite non sono ancora del tutto rimarginate: i processi storici, la verità, la giustizia per le vittime e la trasmissione della memoria alle nuove generazioni restano impegni fondamentali. In questo articolo ripercorriamo ciò che accadde in quel drammatico settembre del 1973, analizzando le responsabilità, le conseguenze e l’eredità di un evento che ha cambiato per sempre il volto del Cile e ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’America Latina.

Salvador Allende, il primo marxista a raggiungere il potere attraverso il voto popolare, aveva assunto la presidenza il 3 novembre 1970, a capo della coalizione di Unidad Popular, che includeva socialisti e comunisti. Il suo governo si propose di attuare una trasformazione sociale ed economica radicale del Paese. Tra le sue riforme più significative vi furono la nazionalizzazione delle grandi miniere di rame, la riforma agraria che eradicò i latifondi, la nazionalizzazione dei grandi monopoli industriali con la partecipazione dei lavoratori nella direzione delle imprese, e un’immensa opera culturale che rese il libro accessibile alle famiglie lavoratrici cilene. Questa agenda sociale senza precedenti mirava a rendere il Paese più giusto.

Tuttavia, il mandato di Allende fu fin da subito assediato da nemici, sia interni che esterni. Già il 5 novembre 1970, pochi giorni dopo l’insediamento di Allende, il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense, Henry Kissinger, redigeva un rapporto per il presidente Nixon, in cui si affermava che l’esempio di un “successo governo Allende in Cile” avrebbe avuto un impatto e un valore di precedente in altre parti del mondo, specialmente in Italia, influenzando significativamente l’equilibrio globale. Kissinger raccomandava di opporsi ad Allende “con tutta la forza possibile” per impedirne il consolidamento al potere, pur mantenendo l’apparenza di reagire alle sue mosse. Di fatto, l’opposizione cilena contò fin dal primo momento con l’appoggio degli Stati Uniti, che finanziarono sabotaggi e attentati di gruppi paramilitari di destra. Il presidente Nixon stesso aveva ordinato di fare “tutto il possibile affinché l’economia cilena ululasse”.

All’interno del Cile, Allende affrontò una destra che non accettò la sua sconfitta elettorale e settori imprenditoriali che presto si organizzarono per destabilizzare il governo. La riforma agraria, in particolare, creò una profonda ferita nei latifondisti e nei settori più abbienti della società tradizionale cilena, che furono espropriati dei loro terreni.

Un evento tragico che condizionò il processo fu l’assassinio del dirigente della Democrazia Cristiana, Edmundo Pérez Zujovic, l’8 giugno 1971. Questo fatto fu sfruttato dai settori più conservatori della Democrazia Cristiana per allearsi con la destra e formare un fronte politico che divise il Paese in due blocchi antitetici. Sebbene molti nella Democrazia Cristiana fossero contrari a ricorrere alle forze armate, un settore finì per propendere per un Colpo di Stato, pensando che sarebbe stato temporaneo e passeggero.

Il “paro de camioneros” (sciopero dei camionisti) del 1972 paralizzò il Paese, lasciandolo senza rifornimenti e mettendo a rischio la governabilità. Nonostante tutto, nelle elezioni parlamentari di marzo 1973, l’Unidad Popular, che nel 1970 aveva ottenuto il 36% dei voti con Allende, raggiunse il 43,4%, guadagnando deputati e senatori e impedendo all’opposizione di porre fine al governo per vie costituzionali. Nonostante questo successo, alla televisione si parlava già apertamente di un golpe.

Il “Tanquetazo” di giugno 1973, un tentativo di golpe fallito, fu sventato dal generale Carlos Prats. Prats, tuttavia, si dimise, emotivamente provato dalla pressione, e il suo sostituto fu Augusto Pinochet. La posizione di Pinochet rimase ambigua fino all’ultimo. Otto giorni prima del golpe, in una conversazione con il ministro della difesa, Pinochet parlava di una “truppa di pazzi” che riteneva preferibile un golpe con la morte di “centomila persone” piuttosto che una guerra civile con “un milione”.

Il 10 settembre 1973, Salvador Allende prese una decisione fondamentale: avrebbe annunciato al Paese un referendum per permettere agli elettori di scegliere il cammino da seguire, tra quello offerto dal governo e quello dall’opposizione. Allende comunicò questa decisione ai capi militari, incluso Pinochet. Il giorno 10, Allende convocò Pinochet e il generale Urbina per informarli dell’apertura delle urne. I generali, secondo i racconti, rimasero “a bocca aperta”. Il ministro Orlando Letelier, in un pranzo con Allende e i suoi consiglieri più stretti il giorno 10, aveva difeso la tesi che il golpe sarebbe esploso quella settimana, e che se fossero riusciti a resistere, non sarebbero mai caduti.

La notte tra il 10 e l’11 settembre, Allende monitorò i movimenti delle truppe fino alle 2:30 del mattino, quando andò a dormire.

Poco dopo le 6 del mattino, fu svegliato dalla notizia della sollevazione della marina da Valparaíso. Le chiamate dalla residenza di Allende a Pinochet non furono inizialmente risposte, o Pinochet si finse addormentato.

Allende si recò al Palazzo de La Moneda, la sede presidenziale. Sua figlia, Isabel Allende, fu informata del golpe da una collaboratrice e si precipitò al palazzo, portando con sé solo un piccolo cambio di vestiti con l’ingenuità che il golpe potesse essere soffocato come il Tanquetazo.

Il primo bando militare fu emesso, dichiarando che il presidente doveva procedere all’immediata consegna del suo alto incarico alle forze armate. Allende comprese il tradimento del capo dell’esercito, Pinochet, quando sentì un bando firmato dal comandante in capo alla radio. Il suo volto rimase inespressivo, avendo da tempo contemplato la possibilità di un tradimento. In quel momento, diede la sua ultima prova di serenità e convinzione nel lottare e dare la vita per la democrazia.

Dalla Radio Magallanes, Allende pronunciò quello che sarebbe diventato il suo ultimo e storico discorso: “Il popolo non deve farsi schiacciare, ma neanche può. Lavoratori della mia Patria, ho fede nel Cile e nel suo destino. Supereranno questo momento. Continuate a sapere che molto più presto che tardi di nuovo si apriranno le grandi alamedas dove passeranno gli uomini liberi per costruire una società migliore. Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori!”.

Mentre Beatriz e Isabel Allende venivano fatte uscire dal palazzo, il silenzio attorno a La Moneda contrastava con la tensione che si era vissuta. Le truppe golpiste circondarono il palazzo, che ricevette un ultimatum: essere evacuato entro le 11:00, altrimenti sarebbe stato attaccato dall’aviazione. Poco dopo, iniziò un inferno di fuoco di artiglieria, blindati e fanteria, con voli a bassa quota di aerei per intimidazione. Dopo le 11:30 o poco prima delle 12:00, gli aerei Hawker Hunter bombardarono il palazzo, che fu consumato dalle fiamme.

Con il palazzo in fiamme e semidistrutto, Allende, verso le due del pomeriggio, chiese alle persone che erano rimaste con lui di arrendersi ai militari che stavano già entrando, salutandoli con un abbraccio e parole affettuose, chiedendo loro di salvare la vita. Lui stesso si ritirò in una sala del palazzo e pose fine alla sua vita con il fucile AK-47 che gli aveva regalato Fidel Castro. L’unico testimone della morte del presidente fu il dottor Patricio Guijón, che rientrò per recuperare una maschera antigas e vide il tragico momento. Instanti dopo, i primi soldati comunicarono al generale Palacios: “Moneda presa, presidente morto”.

All’interno del palazzo in fiamme, i pompieri volontari trovarono il corpo senza vita del presidente Allende in una sala chiamata “Independencia”. L’ambiente era di silenzioso e profondo rispetto, in un giorno grigio e semipiogoso, denso di una sensazione di incertezza su cosa stesse accadendo e cosa sarebbe successo.

Mentre nei quartieri benestanti di Santiago c’era gente che celebrava per strada con bottiglie di champagne, ignara della magnitudine delle violazioni dei diritti umani che sarebbero seguite, solo una settimana dopo il golpe, l’agenzia France Presse titolava: “Non c’è più carenza in Cile”. Il problema che aveva afflitto il Paese per tanto tempo era svanito “per magia”. Ma questo fu solo l’inizio di un’era oscura.

Il golpe è stato definito un “crimine di superbia e una fellonia fondazionale del terrorismo di Stato” che devastò il Cile per i 17 anni di dittatura. La repressione fu brutale. Carlos Berger, giornalista e marito di Carmen Hertz, storica attivista contro la dittatura, fu assassinato dalla “Carovana della Morte” nell’ottobre 1973. Fu massacrato, mutilato e i suoi resti gettati in una fossa clandestina, poi riesumati e gettati in mare per ordine di Pinochet per cancellare le prove. Questa è solo una delle migliaia di storie.

Cinquanta anni dopo, una parte del Cile fatica ancora a comprendere la profondità di quella ferita. Il 36% dei cileni crede ancora che i militari avessero ragione a fare il golpe, pensando che salvò il Cile dal comunismo e permise la crescita economica. Questa percezione è considerata grave per la fortezza della democrazia e il rispetto dei diritti umani. Nonostante il golpe, la battaglia politica e costituzionale fu vinta da Allende. Il suo messaggio rimane attuale: quando si rompono le regole democratiche, “mostri emergono nella società”. Quella generazione che cercò di “raggiungere il cielo con le mani”, credendo di poter cambiare il mondo, fu l’obiettivo di una vendetta, di un tentativo di eliminarla.

La dittatura lasciò una lezione profonda: la democrazia non è come la “Cordillera de los Andes”, una struttura immutabile e solida che si può dare per scontata. È, invece, come un “giardino che deve essere innaffiato ogni giorno”. La cultura democratica deve essere coltivata, il comportamento delle persone è fondamentale, e l’amicizia civica deve espandersi, il tutto fondato sullo stato di diritto. La memoria di quell’11 settembre serve a ricordare l’importanza della vigilanza e della cura costante per le istituzioni democratiche.

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