“Il sollievo del solito”: George R.R. Martin, Chicago e l’isola di permanenza del Fandom

Negli anni ’80, George R.R. Martin, all’epoca già una voce distinta della fantascienza, si è presentato come Ospite d’Onore a Windycon X nell’ottobre del 1983. Il suo discorso, intitolato “Il sollievo del solito: ritorno a Windycon”, non è stato un’analisi accademica del genere, né un manifesto letterario, ma piuttosto un’intima e perspicace riflessione sul cambiamento, la nostalgia, le radici personali e il sorprendente ruolo che il fandom della fantascienza gioca come punto fermo in un mondo in costante evoluzione.

Martin inizia il suo discorso esprimendo il piacere di essere Ospite d’Onore, un ruolo che apprezza profondamente. Sottolinea come Windycon sia per lui un “ritorno a casa”, data la sua profonda connessione con Chicago. È qui, infatti, che Martin ha frequentato la Northwestern University e ha vissuto dal 1971 al 1976, nel quartiere di Uptown. Ricorda Uptown come un luogo “lievitato” (“yeasty”), un crogiolo etnico, razziale, economico e generazionale dove “bar con topless e case di riposo e condomini erano a un paio di isolati l’uno dall’altro”, e dove “giovani single in ascesa e hippies rimasti e molti rapinatori e assassini si mescolavano tutti insieme”.

Questo contesto vivido e talvolta caotico viene esemplificato da un aneddoto divertente: la sua esperienza con un negozio di alimentari gestito da due anziani ebrei, che un giorno fu rilevato da una coppia asiatica. Il tentativo di Martin di ordinare del “pastrami” al nuovo commesso, che faticava con l’inglese, si conclude con un’esilarante incomprensione, con il commesso che indica se stesso e dichiara “Pakistani!”. Questa scena pittoresca, per Martin, era la quintessenza della vita a Uptown.

Un altro simbolo di quel periodo di “giovane neopro in difficoltà” era Don’s Grill, una “caffetteria più unta che si potesse immaginare”. Nonostante la sua semplicità, Don’s Grill deteneva un posto speciale nel cuore di Martin, in quanto era l’unico ristorante al mondo dove aveva realizzato una delle sue ambizioni di lunga data: “poter entrare, sedersi e dire alla cameriera: ‘Il solito'”. Questa frase, “the usual”, diventa la metafora centrale del suo discorso, un simbolo di familiarità e di un mondo che, in un’epoca di continui cambiamenti, offriva un barlume di stabilità.

Le Windycon facevano parte integrante della sua vita a Chicago, sebbene, “grazie a Dio, non quotidianamente”. Martin è stato un assiduo frequentatore delle prime edizioni. Il racconto del suo primo Hugo Award è un esempio perfetto dell’umorismo e della realtà spesso caotica del fandom. Martin vinse il suo primo Hugo quando la Worldcon si teneva in Australia, un viaggio che non poteva permettersi. Ricevette la notizia tramite un telegramma della Western Union mentre dormiva in mutande nel suo appartamento di Uptown.

L’Hugo, ritirato per lui da Ben Bova, intraprese un viaggio epico attraverso diversi autori – da Ben Bova a Gordy Dickson, poi a Joe Haldeman (che lo usò per “riti indicibili” prima di averne uno suo), fino a Lynne Aronson, la fondatrice di Windycon, che finalmente lo consegnò a Martin durante una “colazione a buffet a volontà”. Questa colazione, tuttavia, fu un disastro: il cibo era cattivo e insufficiente, e i tavoli avevano “sei panini dolci” per otto persone. Martin scherzò dicendo che non sapeva quale fosse la più grande conquista: ottenere l’Hugo o un panino dolce. Questo episodio sottolinea la natura schietta e spesso improvvisata dei primi giorni delle convention, che Martin ricorda con affetto.

Martin ricorda che se in passato doveva prendere la metropolitana per raggiungere Windycon o dormire sui pavimenti degli amici, ora volava con Pioneer Airlines e gli veniva assegnata una stanza d’albergo. Mentre prima doveva recarsi alla con suite per una birra dalla vasca da bagno, ora un “gopher” (un assistente volontario) gliela procurava. Il contrasto evidenzia non solo il suo successo personale, ma anche l’evoluzione delle convention stesse.

Tuttavia, Martin ammette che essere Ospite d’Onore comporta anche degli svantaggi, il più grande dei quali è l’obbligo di fare un discorso. Scherza sul fatto di aver esaurito gli argomenti, avendo già parlato dello “stato del settore”, degli editori, dei critici e persino delle “tartarughe”. Questo ritorno a Chicago e la riflessione sul suo passato e presente diventano quindi la scelta “ovvia” per il suo discorso.

Il tema del cambiamento è centrale nel discorso di Martin. Egli riflette sulle sue trasformazioni personali in dieci anni: quattro traslochi, un matrimonio e un divorzio, nuove amicizie e legami persi. Confessa di provare una punta di tristezza per non aver più trovato un posto come Don’s Grill dove potesse ordinare “il solito”.

Introduce il suo nuovo romanzo in uscita, “The Armageddon Rag”, come un’opera che parla proprio di “cambiamento e perdita”. Descrive il romanzo come un mix di rock ‘n’ roll, anni Sessanta e Ottanta, mistero, orrore occulto e mainstream, sottolineando come sia “totalmente diverso da qualsiasi cosa abbia fatto prima”. Martin sostiene con forza che “il lavoro deve cambiare, che uno scrittore che si ripete troppo spesso è sulla strada della stagnazione e dell’auto-parodia”.

Questa preoccupazione per la stagnazione si estende al campo della fantascienza stessa. Martin esprime il timore che troppi scrittori e editori si siano fermati dall’esplorare nuove direzioni, mantenendo il genere e i singoli autori nelle loro “nicchie”. Pur essendo in favore del cambiamento nella scrittura, ammette di avere un “atteggiamento ambivalente” verso il cambiamento del genere, sperando che la diversità che ha sempre apprezzato nella SF ritorni.

Questa ambivalenza si riflette in una delle osservazioni più acute di Martin: la contraddizione intrinseca nel fandom della fantascienza. Nonostante si proclami “antidoto allo shock del futuro”, il fandom è “tanto innamorato dei suoi ieri quanto dei suoi domani”. Martin osserva come le stesse persone che parlano di case bio-ingegnerizzate e fusioni nucleari reagiranno con orrore a un suggerimento di cambiare le regole degli Hugo. Tuttavia, non condanna questa contraddizione, riconoscendola anche in se stesso e valorizzandola come parte della cultura della fantascienza.

La parte più toccante del discorso di Martin è la sua riflessione sulla natura duratura del fandom. Ricorda i suoi party a Chicago, dove si mescolavano diversi gruppi di amici: i giocatori di scacchi del college, gli avvocati radicali e i volontari di VISTA, e i suoi amici scrittori di fantascienza. Questi gruppi erano come “acqua e olio e mercurio”, ognuno con le proprie attività e conversazioni separate. All’epoca, Martin si sentiva più vicino ai giocatori di scacchi e agli avvocati.

Ma dieci anni dopo, la situazione è drasticamente cambiata. I legami con la maggior parte degli amici del college e dei colleghi si sono affievoliti o sono svaniti del tutto. “Ma la gente della fantascienza fa ancora una parte importante della mia vita. Più grande che mai”. Questi legami sono mantenuti attraverso lettere, telefonate e, soprattutto, gli incontri alle convention, creando una “permanenza fluttuante”.

In un mondo dove “tutto sta cambiando, dove le persone saltano da città a città e lasciano la loro vita alle spalle quando vanno, dove amicizie e amori e matrimoni sembrano ogni anno più transitori”, Martin descrive la sottocultura della fantascienza come “una specie di isola di permanenza”. Qui, “i tuoi amici e i tuoi nemici faranno parte della tua vita per sempre, che tu lo voglia o no”. Martin conclude che, “nel nome di quella che a volte è chiamata la letteratura del cambiamento, abbiamo creato un mondo dove nulla cambia, dove il programma delle convention è regolare come le stagioni”.

Martin confessa la sua dipendenza da questo mondo, non perché i fan siano superiori, ma per questa “permanenza” che vi si trova. Nonostante la sua scrittura abbia subito una “netta transizione” nel corso degli anni – da una fantascienza romantica a ibridi horror, horror storico e ora Armageddon Rag, che lui stesso fatica a etichettare con precisione – Martin dichiara con fermezza: “sono una persona di fantascienza e lo sarò sempre”. I suoi legami con questo mondo sono troppo forti per lasciarlo. Continuerà a partecipare alle Worldcon “fino alla morte” e probabilmente anche a future Windycon.

Concludendo il suo discorso, George R.R. Martin torna alla metafora iniziale: le convention sono “ritorni a casa” che danno “continuità alle nostre vite, che mantengono il nostro passato una parte di noi”. In un mondo dove i cambiamenti non sono sempre quelli desiderati e dove anche i migliori cambiamenti portano con sé una perdita, queste convention offrono un luogo dove possiamo recarci al banco di registrazione e dire: “Datemi il solito”, e loro sapranno – con certezza – chi siamo e cosa vogliamo. È un sollievo, in mezzo all’incertezza, trovare un posto dove si è riconosciuti e si può godere della rassicurante familiarità del “solito”.

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