Divertirsi scrivendo secondo David Foster Wallace

Il saggio di David Foster Wallace intitolato “The nature of the fun” è un testo che offre una prospettiva straordinariamente onesta e complessa sulla gioia e le sfide intrinseche alla scrittura di narrativa. Pubblicato originariamente su Fiction Writer Magazine nel settembre 1998 e successivamente inserito nell’antologia Why I Write: Thoughts on the Craft of Fiction, questo saggio è considerato da molti come “la cosa più saggia e vera” mai letta sull’argomento della scrittura. Wallace, con il suo stile inconfondibile, ci guida attraverso le dinamiche psicologiche che definiscono l’esperienza di un autore, dalla gestazione dolorosa di un’opera fino alla ricerca di un piacere autentico nel processo creativo.

Wallace inizia la sua riflessione attingendo a una potente metafora di Don DeLillo, presentata nel romanzo “Mao II”, per descrivere la relazione di un autore con la sua opera in corso. Egli paragona un libro in fase di scrittura a un “neonato orribilmente danneggiato”. Questa immagine è vivida e cruda: il neonato è idrocefalo, senza naso, con braccia a pinna, incontinente, ritardato, e perde liquido cerebrospinale dalla bocca mentre piagnucola e borbotta, sempre al seguito dello scrittore, che sia a tavola in un ristorante o ai piedi del letto al mattino. Questo neonato deforme desidera amore, e la sua stessa mostruosità gli garantisce l’attenzione completa dello scrittore.

Wallace crede che ciò cattura la miscela di repulsione e amore che l’autore di narrativa prova per ciò a cui sta lavorando. L’opera, infatti, emerge sempre “orribilmente difettosa”. È una “caricatura crudele e ripugnante della perfezione della sua concezione,” grottesca proprio perché imperfetta. Eppure, nonostante la sua deformità, è intrinsecamente “tua, è te,” e per questo la si ama, la si dondola e se ne pulisce la bava. Questa dedizione è tale che lo scrittore si trascura, non facendo nemmeno il bucato per settimane, per paura di perdere l’attimo in cui un capitolo o un personaggio sembra stia per “finalmente prendere forma e funzionare”.

Ma a questo amore si affianca un odio viscerale: si odia l’opera perché è deforme, ripugnante, perché “qualcosa di grottesco le è accaduto nel parto dalla testa alla pagina”. Questo odio è in realtà un odio per la propria deformità, poiché se si fosse uno scrittore migliore, il “neonato” sarebbe perfetto, come quelli delle pubblicità di abbigliamento per neonati. Ogni respiro incontinente di questa creatura è una “devastante accusa” contro l’autore stesso, portandolo a desiderare la sua morte, anche mentre lo cura, lo dondola e gli pratica la rianimazione cardiopolmonare. Nonostante tutto il disordine e la tristezza, questa relazione è “tenera, commovente, nobile e bella,” un rapporto genuino che risveglia “alcune delle parti migliori di te: parti materne, oscure”. Lo scrittore ama profondamente il suo “neonato” e desidera che anche gli altri lo amino quando sarà il momento di “affrontare il mondo”.

Da questa complessa relazione emerge una posizione “difficile” per lo scrittore. Si ama l’opera e si vuole che anche gli altri la amino, il che implica sperare che “gli altri non la vedano correttamente”. Si desidera in qualche modo ingannare il pubblico, volendo che veda come perfetta ciò che in cuor suo si sa essere un “tradimento di ogni perfezione”.

L’alternativa a questo desiderio di inganno è ancora più contorta: si desidera che gli altri vedano e amino un “neonato adorabile, miracoloso, perfetto, pronto per la pubblicità,” e che questa percezione sia “giusta, corretta”. In altre parole, si desidera essere “terribilmente sbagliati” riguardo all’orribile deformità percepita del proprio lavoro, sperando che sia stata solo una “strana illusione o allucinazione”. Ma ciò implicherebbe essere “pazzi,” aver visto e “subito il stalking di deformità orribili che in realtà (gli altri ti persuadono) non esistono affatto”. Questo significherebbe non essere del tutto lucidi. Ancora peggio, significherebbe “vedere e disprezzare l’orrido in una cosa che hai creato (e ami), nella tua prole e, in certi modi, in te stesso”.

Questa “ultima, migliore speranza” rappresenterebbe qualcosa di “molto peggio che una pessima genitorialità”; sarebbe “una terribile forma di auto-aggressione, quasi auto-tortura”. Eppure, questo è ciò che lo scrittore “vuole di più: essere completamente, follemente, suicidamente sbagliato” sulla perfezione della propria opera. Questa sezione rivela la profonda insicurezza e il desiderio di validazione esterna che affliggono l’autore, desiderando che la realtà esterna smentisca la propria, dolorosa percezione interiore.

Nonostante questa angoscia, Wallace afferma chiaramente che la scrittura è “ancora un sacco di divertimento”. Per spiegare la natura di questo divertimento, egli ricorre a una strana storiella sentita a scuola, quella del “contadino cinese”. La parabola del contadino cinese racconta la storia di un uomo che, davanti agli eventi della vita – apparentemente positivi o negativi – risponde sempre con calma e distacco: “Forse sì, forse no. Vedremo”. Quando il suo cavallo scappa, tutti pensano sia una disgrazia, ma poi il cavallo torna con altri due. Quando il figlio si ferisce, sembra una sfortuna, ma questo lo salva dall’essere arruolato in guerra. La morale della parabola è che non possiamo sapere subito se un evento è davvero positivo o negativo: tutto dipende da come si evolveranno le cose nel tempo. Questa parabola, con il suo ritornello “Buona fortuna, cattiva fortuna, chi lo sa?”, serve come un “ramoscello parabolico” a cui aggrapparsi mentre si affronta il tema del divertimento nella scrittura. La storia del contadino, il cui cavallo scappa (cattiva fortuna), poi ritorna con una mandria di cavalli selvaggi (buona fortuna), il cui figlio si rompe una gamba mentre doma i cavalli (cattiva fortuna), e viene così esentato dal servizio militare (buona fortuna), illustra come gli eventi della vita possano essere interpretati diversamente e come ciò che sembra sfortuna possa rivelarsi un beneficio.

Wallace applica questa fluidità del “bene” e del “male” all’esperienza dello scrittore, delineando un’evoluzione del “divertimento” nel corso della carriera.

Fase 1: Il divertimento iniziale (motivazione onanistica). All’inizio, quando si inizia a scrivere narrativa, l’intera impresa è “solo divertimento”. Non ci si aspetta che nessuno la legga; si scrive “quasi interamente per liberarsi”. L’obiettivo è “abilitare le proprie fantasie e logiche devianti” e “sfuggire o trasformare parti di sé che non piacciono”. Questa fase è descritta come efficace e “terrificante divertimento”.

Fase 2: La complicazione della validazione esterna e della vanità. Se si ha “buona fortuna” e il pubblico sembra apprezzare ciò che si fa, si inizia a essere pagati, a vedere il proprio lavoro pubblicato professionalmente, recensito e persino letto da sconosciuti. Questo “sembra renderlo ancora più divertente. Per un po’”. Tuttavia, le cose iniziano a diventare “complicate e confuse, per non parlare di spaventose”. Lo scrittore inizia a sentire di scrivere “per altre persone” e il “motivo puramente personale inizia a essere soppiantato dal motivo di essere apprezzati”. Da qui, si passa poi a una seduzione, che è un “duro lavoro” e porta con sé una “terribile paura del rifiuto”. L'”ego” o, più precisamente, la “vanità” entra in gioco. Gran parte della scrittura diventa “essenzialmente uno sfoggio, un tentativo di far sì che la gente pensi che tu sia bravo”. Wallace individua una verità difficile: “una certa quantità di vanità è necessaria per riuscire a farlo del tutto, ma qualsiasi vanità al di sopra di quella certa quantità è letale”. Quando il “bisogno travolgente di essere apprezzati” motiva il 90% della scrittura, il risultato è una “narrativa scadente”. Questa “opera scadente” deve essere cestinata, non tanto per “integrità artistica”, quanto perché “l’opera scadente ti farà essere sgradito”. A questo punto dell’evoluzione del divertimento dello scrivere, ciò che ha sempre motivato a scrivere è anche ciò che motiva a gettare la propria scrittura nel cestino. Questo crea un “paradosso e una sorta di doppio legame,” intrappolando lo scrittore per mesi o anni, in cui si “lamenta, digrigna i denti, maledice la sua sfortuna e si chiede amaramente dove sia finito tutto il divertimento della cosa”.

Wallace propone una via d’uscita da questo vicolo cieco: “tornare in qualche modo alla motivazione originale – il divertimento”. E, sorprendentemente, se si riesce a ritrovare il divertimento, si scopre che il “doppio legame orribilmente sfortunato del tardo periodo vanitoso si rivela in realtà una buona fortuna”. Questo perché il divertimento ritrovato è stato “trasfigurato dalla spiacevolezza estrema della vanità e della paura”. L’ansia di evitare quella spiacevolezza fa sì che il divertimento riscoperto sia un tipo di divertimento “molto più pieno e generoso”. Questo ha a che fare con il “lavoro come gioco” o con la scoperta che il “divertimento disciplinato è più del divertimento impulsivo o edonistico”. Implica anche la comprensione che “non tutti i paradossi devono essere paralizzanti”.

Sotto questa “nuova amministrazione del divertimento,” la scrittura di narrativa diventa un modo per “andare in profondità dentro di sé e illuminare precisamente le cose che non si vogliono vedere o lasciare che altri vedano”. E, paradossalmente, queste “cose si rivelano essere precisamente le cose che tutti gli scrittori e lettori ovunque condividono e a cui rispondono, che sentono”. La narrativa si trasforma in un “modo strano per confrontarsi con se stessi e dire la verità invece di essere un modo per sfuggire a se stessi o presentarsi in un modo che si pensa sarà massimamente gradito”. Questo processo è descritto come “complicato, confuso e spaventoso, e anche un duro lavoro, ma si rivela essere il miglior divertimento che ci sia”.

La capacità di mantenere il divertimento nella scrittura confrontando le stesse parti spiacevoli di sé che si erano inizialmente cercate di evitare o mascherare è un altro paradosso. Ma, a differenza del precedente, questo non è un “legame” che paralizza. È invece un “dono, una specie di miracolo,” e rispetto ad esso, “le ricompense dell’affetto degli estranei sono come polvere, lanugine”.

Il saggio di Wallace non è solo un manuale per scrittori, ma un potente monito sulla complessità della creatività e sulla necessità di una sincera relazione con il proprio lavoro e con se stessi.

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