C.S. Lewis e la scrittura per l’infanzia

C. S. Lewis, autore celebre per le sue opere che hanno incantato generazioni di lettori in particolare con le “Cronache di Narnia”, offre una riflessione profonda e sorprendentemente attuale sul processo di scrittura per bambini nel suo saggio “On Three Ways of Writing for Children”. Lewis identifica l’approccio alla scrittura per l’infanzia in tre distinti metodi, descrivendone due come validi e uno come generalmente dannoso. Attraverso aneddoti personali e critiche incisive, Lewis non solo delinea questi modi, ma difende anche il valore intrinseco della letteratura fantastica e la complessità della mente infantile.

Lewis inizia la sua disamina presentando quella che considera una via “generalmente cattiva” per scrivere per i bambini. Questa metodologia si fonda sull’idea di identificare ciò che il “bambino moderno vuole” e fornirglielo, indipendentemente dal gusto personale o dalla convinzione artistica dell’autore. Lewis illustra questo approccio con due esempi eloquenti tratti dalla sua esperienza. Il primo esempio riguarda una signora che gli inviò il manoscritto di una storia per bambini in cui una fata metteva a disposizione di un bambino un “gadget” meraviglioso: una macchina con rubinetti, maniglie e pulsanti che potevano produrre gelato, cuccioli vivi e altre cose simili. Lewis le confessò il suo scarso apprezzamento per questo tipo di narrazione, e la sua risposta fu illuminante: “Neanch’io, mi annoia a morte. Ma è ciò che il bambino moderno vuole”. Questo scambio rivela la natura disinteressata e quasi cinica di questo approccio, dove la presunta domanda del “pubblico” infantile prevale sulla passione o sulla visione artistica dell’autore. Il secondo esempio riguarda la reazione di un uomo con figli al racconto di Lewis di una sontuosa merenda offerta da un fauno nella sua prima storia. L’uomo suggerì che Lewis avesse incluso tale scena pensando che i “piccoli disgraziati” apprezzano il buon cibo. Lewis smentisce questa interpretazione, affermando di aver semplicemente inserito ciò che lui stesso avrebbe voluto leggere da bambino e che gli piace ancora leggere da cinquantenne. Questo sottolinea un punto importante: la scrittura autentica nasce da una sincera risonanza personale con il materiale, non da una calcolata formula di marketing rivolta a un pubblico percepito come monolitico e prevedibile. Entrambi gli esempi, infatti, mostrano come gli autori concepissero la scrittura per bambini come un mero esercizio di “dare al pubblico ciò che vuole”, considerando i bambini come un “pubblico speciale” le cui richieste devono essere soddisfatte, anche a costo di sacrificare il proprio piacere e la propria integrità artistica.

Il secondo modo, che Lewis considera buono, pur sembrando superficialmente simile al primo, si distingue nettamente per la sua profonda autenticità e il suo radicamento nella relazione umana. Questo approccio è esemplificato da autori come Lewis Carroll, Kenneth Grahame e J.R.R. Tolkien. La storia stampata, in questo caso, “nasce da una storia raccontata a un bambino particolare con la voce viva e magari improvvisata”. La somiglianza con il primo modo risiede nel fatto che l’autore sta comunque cercando di “dare a quel bambino ciò che vuole”. Tuttavia, la differenza fondamentale è che qui si tratta di un “persona concreta, questo bambino”, che è unico e diverso da tutti gli altri bambini. Non si tratta di immaginare i “bambini” come una specie aliena da studiare come un antropologo o un commesso viaggiatore. Lewis è convinto che, in un rapporto così diretto e personale, sarebbe impossibile ingannare il bambino offrendogli cose che si pensa gli possano piacere ma che l’autore stesso guarda con indifferenza o disprezzo; il bambino, dice Lewis, “ci vedrebbe attraverso”. In ogni relazione personale, i due partecipanti si modificano a vicenda. L’autore cambia leggermente parlando a un bambino, e il bambino cambia leggermente essendo parlato da un adulto. Da questa interazione si crea una “comunità, una personalità composita”, e da essa la storia prende forma. Questo metodo enfatizza la collaborazione implicita e la genuinità emotiva che scaturisce da un legame autentico, in netto contrasto con la distanza e il calcolo del primo modo.

Il terzo modo è quello che Lewis stesso afferma di poter usare e che considera il più valido. Esso consiste nello scrivere una storia per bambini perché “una storia per bambini è la migliore forma d’arte per qualcosa che si ha da dire”. Lewis paragona questo processo a quello di un compositore che scrive una Marcia Funebre non per un funerale pubblico imminente, ma perché alcune idee musicali che gli sono venute in mente si adattavano meglio a quella forma specifica. Questo modo è guidato dalla necessità intrinseca del materiale narrativo di assumere quella particolare forma, piuttosto che da considerazioni sul pubblico o da un rapporto specifico con un bambino. Lewis menziona un aneddoto (che potrebbe essere apocrifo ma illustra il suo punto) su Arthur Meek, che si dice non avesse mai incontrato un bambino e non avesse mai desiderato farlo. Per Meek, era semplicemente un “colpo di fortuna” che i ragazzi apprezzassero ciò che lui amava scrivere. Questo aneddoto rafforza l’idea che l’autore segua la propria ispirazione e il proprio gusto, e se l’opera trova risonanza nei bambini, è un felice risultato secondario.

All’interno della categoria delle “storie per bambini”, Lewis predilige il genere della fantasy o fiaba. Cita come esempio la trilogia di E. Nesbit sulla famiglia Bastable, un esempio eccellente di un altro tipo di storia per bambini. Sebbene sia una storia che i bambini leggono e apprezzano, Lewis sostiene che fosse “l’unica forma in cui E. Nesbit avrebbe potuto darci così tanto degli umori dell’infanzia”. Scrivere a lungo sui bambini dal punto di vista degli adulti porta spesso a una sentimentalità che fa perdere la “realtà dell’infanzia”. Lewis, citando Sir Michael Sadler, sottolinea come la vera comprensione dell’infanzia venga solo quando i bambini sono cresciuti e possono raccontare la loro esperienza. La trilogia di Bastable, per quanto improbabili molti dei suoi episodi, offre agli adulti una lettura più realistica sui bambini rispetto a molti libri rivolti agli adulti. Inoltre, permette ai bambini di apprezzare uno studio del personaggio, come l’autoritratto satirico di Oswald, in una forma che non leggerebbero in altri contesti.

Da questa osservazione sulla trilogia di Bastable, Lewis deriva un principio fondamentale: “Una storia per bambini che è apprezzata solo dai bambini è una brutta storia per bambini. Quelle buone durano”. Questa affermazione, che Lewis definisce un “canone”, suggerisce che la vera qualità di una storia per l’infanzia si misura nella sua capacità di coinvolgere lettori di tutte le età. La paragona a un valzer che è brutto se piace solo mentre si balla. Questo “canone” è particolarmente vero per la fantasia e la fiaba, il genere più caro a Lewis.

Lewis si addentra quindi in una vigorosa difesa della fiaba e della fantasia, contro le critiche del “mondo critico moderno” che usa “adulto” come termine di approvazione e disprezza la “nostalgia” o il “Peter Pantheismo”. Essere ancora affezionati a nani, giganti, bestie parlanti e streghe a cinquantatré anni, ammette, è spesso visto come “sviluppo arrestato” piuttosto che “eterna giovinezza”.

La sua difesa si articola in tre proposizioni.

1. L’accusa di “Tu Quoque” ai critici. Lewis ribatte che i critici che trattano “adulto” come un termine di lode, invece che meramente descrittivo, non possono essere essi stessi adulti. L’ossessione per l’essere adulti, l’ammirazione per la crescita per il solo fatto di essere cresciuti, la vergogna di essere considerati infantili, sono tutti “marchi dell’infanzia e dell’adolescenza”. Questi sono “sintomi sani” in gioventù, ma portarli nell’età adulta è segno di “sviluppo veramente arrestato”. Lewis confessa di aver letto fiabe di nascosto a dieci anni per vergogna, ma a cinquant’anni le legge apertamente. Afferma: “Quando divenni uomo misi da parte le cose infantili, inclusa la paura dell’infantilità e il desiderio di essere molto adulto”.

2. Una falsa concezione della crescita. Lewis contesta l’idea che lo sviluppo arrestato consista nel non perdere i gusti dell’infanzia. Per lui, la crescita non è una sostituzione, ma un’aggiunta. Spiega che ora gli piace l’hock, cosa che non gli sarebbe piaciuta da bambino, ma gli piace ancora lo sciroppo di limone. Questo, per lui, è crescita, perché è stato arricchito: dove prima aveva un solo piacere, ora ne ha due. Se avesse dovuto perdere il gusto per lo sciroppo di limone per acquisire quello per l’hock, non sarebbe stata crescita ma “semplice cambiamento”. Allo stesso modo, godere di Tolstoj, Jane Austen e Trollope oltre alle fiabe è crescita; dover perdere le fiabe per acquisire i romanzieri sarebbe stato solo un cambiamento. L’analogia che usa è potente: “Un albero cresce perché aggiunge anelli: un treno non cresce lasciandosi una stazione alle spalle e sbuffando verso la successiva”. In realtà, Lewis sostiene di apprezzare le fiabe ancora di più da adulto, poiché vi può mettere e trarre di più. I critici, a suo parere, confondono la crescita con i “costi della crescita” e cercano di rendere questi costi molto più alti di quanto siano in natura. Chiede retoricamente: se il perdere cose fosse l’essenza della crescita, “perché dovremmo fermarci all’adulto? Perché ‘senile’ non dovrebbe essere ugualmente un termine di approvazione? Perché non dovremmo essere congratulati per la perdita dei denti e dei capelli?”.

3. La fiaba non è esclusivamente per i bambini. L’associazione della fiaba e della fantasia con l’infanzia è “locale e accidentale”. Lewis raccomanda il saggio di Tolkien “On Fairy-Stories” come il più importante contributo sull’argomento. Egli afferma che, nella maggior parte dei luoghi e dei tempi, la fiaba non è stata creata né goduta esclusivamente dai bambini. È “gravitata nella nursery” quando è diventata fuori moda negli ambienti letterari, proprio come i mobili fuori moda finivano nella nursery nelle case vittoriane. Molti bambini, in realtà, non amano le fiabe, così come molti non amano i divani di crine; e molti adulti le amano, come molti adulti amano le sedie a dondolo.

Lewis specula sulle ragioni del fascino della fiaba. Menziona due teorie principali La prima: Tolkien. L’attrattiva risiede nel fatto che l’uomo, attraverso la fiaba, esercita pienamente la sua funzione di “subcreatore”, non facendo un “commento sulla vita” ma creando, “per quanto possibile, un mondo subordinato proprio”. Il piacere nasce dal successo di questa funzione. La seconda: Jung. La fiaba libera gli “Archetipi” che risiedono nell’inconscio collettivo, e leggendo una buona fiaba si obbedisce all’antico precetto “Conosci te stesso”. C’è però un’ulteriore aggiunta di Lewis. L’autore infatti aggiunge una propria teoria sul ruolo delle creature non umane (giganti, nani, bestie parlanti) che si comportano umanamente. Le considera “un ammirevole geroglifico che veicola la psicologia, i ‘tipi’ di carattere, più brevemente della presentazione romanzesca e a lettori che la presentazione romanzesca non potrebbe ancora raggiungere”. Cita Mr. Badger in “Il Vento tra i Salici” come esempio di un “amalgama straordinario di alto rango, modi rozzi, burberaggine, timidezza e bontà”, che fornisce al bambino una conoscenza dell’umanità e della storia sociale inglese in un modo unico.

Lewis prosegue chiarendo che non tutta la letteratura per bambini è fantastica, né tutti i libri fantastici sono per bambini. La distinzione tra fantasy per bambini e per adulti è sottile, e spesso gli stessi lettori apprezzano entrambi i generi dallo stesso autore. Critica l’abitudine degli editori di categorizzare i libri per età, sottolineando che i lettori reali non seguono tabelle di marcia. Per Lewis, la scelta di scrivere una fiaba per bambini è stata una necessità creativa: gli ha permesso di omettere ciò che voleva tralasciare e di concentrare la forza del libro su “ciò che è stato fatto e detto”, controllando il suo “demone espositivo” e imponendo “necessità molto fruttuose riguardo alla lunghezza”.

Lewis affronta ulteriori accuse mosse contro la fiaba come letteratura per bambini.

1. Dare una falsa impressione del mondo. La fiaba è accusata di dare ai bambini una falsa impressione del mondo. Lewis ribatte che, al contrario, “nessuna letteratura che i bambini possano leggere dà loro meno di una falsa impressione”. Sostiene che le storie che si professano realistiche per bambini sono molto più propense a ingannarli. Lewis confessa di non aver mai atteso che il mondo reale fosse come le fiabe, ma di aver creduto che la scuola sarebbe stata come le storie di scuola. Le fantasie non lo hanno ingannato; le storie di scuola sì. Storie in cui i bambini hanno avventure e successi possibili ma “quasi infinitamente improbabili” (come storie di scuola, o di spionaggio) sono più pericolose delle fiabe nel creare false aspettative.

2. Escapismo (appagamento di desideri). L’accusa di escapismo è più sottile. Sia le fiabe che le “storie realistiche” (come i “libri per ragazzi” o “per ragazze”) suscitano e soddisfano desideri. Tuttavia, le due forme di desiderio sono molto diverse.  Il desiderio suscitato dalle storie realistiche (ad esempio, di essere lo scolaro di successo) è “vorace e mortalmente serio”. Il suo appagamento a livello immaginativo è “veramente compensatorio”: si fugge ad esso dalle delusioni della realtà, e si viene rimandati al mondo reale “interamente scontenti”. Questo perché è un “adulazione dell’ego”, il piacere consiste nell’immaginarsi oggetto di ammirazione. Questa è la “fantasia” nel senso clinico psicologico.  Il desiderio per il mondo fatato è differente. Un bambino non desidera il mondo fatato nel senso prosaico di volere draghi nell’Inghilterra contemporanea. Invece, “il mondo fatato suscita un desiderio per ciò che egli non sa”. Lo “turba e lo scuote (arricchendolo per tutta la vita) con il senso sfumato di qualcosa oltre la sua portata”. Lungi dall’appiattire il mondo reale, gli conferisce una “nuova ‘dimensione di profondità'”. Un bambino non disprezza i boschi reali perché ha letto di boschi incantati; al contrario, la lettura “rende tutti i boschi reali un po’ incantati”. La differenza è chiara: il ragazzo che legge la storia di scuola desidera il successo ed è infelice (una volta finito il libro) perché non può ottenerlo; il ragazzo che legge la fiaba “desidera ed è felice nel fatto stesso di desiderare”. La sua mente non è concentrata su se stesso, come spesso accade nelle storie più realistiche. Lewis non condanna le storie di scuola, ma le ritiene più inclini a diventare “fantasie” nel senso clinico. Le “pericolose fantasie” sono sempre quelle superficialmente realistiche, che riguardano milionari o bellezze irresistibili, cose che “potrebbero davvero accadere” o “sarebbero accadute se il lettore avesse avuto una giusta possibilità”. Per Lewis, ci sono due tipi di desiderio: “uno è un’askesis, un esercizio spirituale, e l’altro è una malattia”.

3. Spaventare i bambini. Lewis riconosce che l’obiezione di non voler spaventare i bambini è seria, avendo egli stesso sofferto molto di paure notturne quando era piccolo. Tuttavia, nessuna delle sue paure proveniva dalle fiabe. Sottolinea che è difficile sapere cosa spaventerà o meno un bambino. Distingue due tipi di paura. Il primo sono le paure patologiche (fobie). Quelle “opprimenti, invalidanti, patologiche contro cui il coraggio ordinario è impotente”. Lewis concorda che la mente del bambino dovrebbe essere tenuta lontana da esse. Tuttavia, non crede che si possano controllare con mezzi letterari, poiché “sembriamo portarle nel mondo con noi già fatte”. Confinare un bambino a storie innocue “in cui non succede nulla di allarmante” non allontanerebbe queste paure, ma riuscirebbe a eliminare “tutto ciò che può nobilitarle o renderle sopportabili”. Nelle fiabe, accanto alle figure terrificanti, si trovano “consolatori e protettori immemorabili, i radiosi”; e le figure terribili non sono solo terribili, ma “sublimi”. Lewis preferisce che un bambino spaventato pensi a giganti e draghi piuttosto che a semplici ladri, e che San Giorgio o un campione in armatura sia un conforto migliore della polizia. Lewis stesso non scambierebbe la conoscenza della “faerie” per l’assenza delle sue orribili paure notturne, ritenendo il prezzo troppo alto. Il secondo tipo è la conoscenza di un mondo di morte, violenza, bene e male. Se l’obiezione significa tentare di impedire ai bambini questa conoscenza, Lewis è in disaccordo. Sarebbe dare loro una “falsa impressione” e nutrirli di escapismo nel senso negativo. Ritiene “ludicro” voler educare una generazione nata nell’era dell’Ogpu e della bomba atomica privandola della conoscenza di “cavalieri coraggiosi e coraggio eroico”. La violenza e lo spargimento di sangue in una storia raramente producono terrore paralizzante nei bambini; al contrario, “vuole essere un po’ spaventato”.

Lewis ammette di aver divagato dalla sua esperienza personale, conoscendo solo il terzo modo. Descrive il suo processo creativo non come un “fare” una storia, ma come “molto più simile al bird-watching che al parlare o al costruire”. Egli “vede immagini” che si raggruppano con un “sapore comune”. A volte si uniscono da sole formando una storia completa, ma più spesso ci sono “lacune” che richiedono “un’invenzione deliberata”. Per lui, le immagini vengono sempre per prime.

Infine, Lewis torna alla questione iniziale di cosa “vogliono i bambini moderni” e la estende alla domanda “Di cosa hanno bisogno i bambini moderni?”. La sua risposta è un deciso “No”. Non perché non gli piacciono le storie con una morale o perché i bambini non apprezzino una morale, ma perché ritiene che la domanda “Di cosa hanno bisogno i bambini moderni?” porti a un atteggiamento “troppo superiore”. È meglio chiedersi “Di quale morale ho bisogno?”, perché ciò che non interessa profondamente l’autore non interesserà profondamente i lettori. Tuttavia, il consiglio migliore è “meglio non porre affatto la domanda”. “Lascia che le immagini ti raccontino la loro morale”. La vera morale, quella di valore, “sorge inevitabilmente da tutta la costituzione della mente dell’autore”. Se non emerge naturalmente, non bisogna aggiungerla forzatamente, perché sarebbe una “platitudine, o anche una falsità”. Lewis conclude che i bambini sono “probabilmente almeno saggi quanto noi” nella sfera morale. Lewis enfatizza che tutto nella storia dovrebbe scaturire dalla “intera costituzione della mente dell’autore”. Gli autori devono scrivere per i bambini partendo dagli elementi della propria immaginazione che condividono con loro. Non si tratta di avere un interesse minore o meno serio nelle cose che si trattano, ma piuttosto di avere altri interessi che i bambini non condividerebbero. La materia della storia dovrebbe essere parte del “mobilio abituale delle nostre menti”. Fondamentale è il modo in cui l’autore si rapporta al bambino lettore. Lewis critica l’idea che ciò che condividiamo con i bambini sia “infantile” in senso peggiorativo o comico. Al contrario, “Dobbiamo incontrare i bambini come uguali in quella zona della nostra natura dove siamo loro uguali”. La superiorità dell’adulto sta in altre aree e nella capacità superiore di raccontare storie. Il bambino lettore non deve essere né “patronizzato né idolato”; l’autore deve parlargli “da uomo a uomo”. L’atteggiamento peggiore, per Lewis, è quello “professionale” che considera i bambini “in blocco come una sorta di materia prima che dobbiamo manipolare”. Gli autori non sono “Provvidenza o Destino”; il loro compito è fare del bene trattando i bambini con rispetto. Lewis conclude con un aneddoto personale: in una sala da pranzo d’albergo, dichiarò ad alta voce il suo odio per le prugne, e una voce di sei anni da un altro tavolo rispose, “Anch’io!”. Quella simpatia fu istantanea; nessuno dei due la trovò divertente, entrambi sapevano che le prugne sono troppo sgradevoli per essere divertenti. Questo, per Lewis, è il “giusto incontro tra uomo e bambino come personalità indipendenti”. Un autore, come mero autore, è al di fuori delle relazioni più complesse tra bambino e genitore o insegnante; è un “uomo libero e un uguale, come il postino, il macellaio e il cane della porta accanto”.

Lewis in questo saggio ci offre una visione illuminante e controintuitiva della scrittura per l’infanzia, che è in realtà una discussione sulla letteratura e sull’autenticità artistica in generale. Egli esorta gli autori a scrivere da un luogo di genuina ispirazione e piacere personale, a riconoscere la complessità e l’uguaglianza dei bambini come lettori, e a non sottovalutare il potere trasformativo della fantasia, che arricchisce la vita interiore e fornisce una comprensione profonda del mondo, ben oltre ciò che le storie “realistiche” possono offrire. La sua difesa della fiaba non è solo un atto di passione personale, ma un appello alla saggezza e all’integrità nella creazione letteraria.

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