Nel suo saggio “On Stories”, C.S. Lewis si addentra in un aspetto spesso trascurato della letteratura: la “Storia” in sé, intesa come la serie di eventi immaginati. Lewis osserva con stupore come i critici abbiano dedicato scarsa attenzione alla storia come entità indipendente, concentrandosi invece sullo stile, l’ordine narrativo o la delineazione dei personaggi. Il suo intento principale è rimediare a questa ingiustizia e chiarire la natura del piacere che le storie, soprattutto quelle popolari, possono offrire, distinguendo tra diverse forme di godimento.
Lewis identifica tre eccezioni notevoli nella storia della critica letteraria che hanno posto la storia al centro: Aristotele nella sua Poetica, che subordinava il carattere alla trama; Boccaccio e altri nel Medioevo e primo Rinascimento con la loro teoria allegorica dei miti; e, nell’era moderna, Jung e la sua dottrina degli Archetipi. Al di fuori di questi, il soggetto è rimasto quasi inesplorato, portando a una sottovalutazione delle forme letterarie in cui la storia è lo scopo principale, come le avventure e i romanzi fantastici, spesso liquidati come adatti solo ai bambini. Lewis, al contrario, sostiene che il piacere offerto da tali storie è spesso frainteso e cerca di definirne le diverse sfumature.
Il fulcro dell’argomento di Lewis risiede nella sua distinzione tra due modi radicalmente diversi di godere delle storie, una distinzione che è in parte basata sul tipo di libro e in parte sul lettore. La sua rivelazione più significativa gli è giunta da una conversazione con un ex allievo americano riguardo alle letture della loro infanzia.
Il piacere dell’eccitazione (o semplice suspense). Lewis definisce l’eccitazione come “l’alternarsi di tensione e placamento dell’ansia immaginata”. Il suo allievo americano, ricordando le avventure di Fenimore Cooper, descriveva il proprio piacere come pura suspense e l’eccitazione di chiedersi se l’eroe si sarebbe svegliato in tempo per sfuggire a un indiano con un tomahawk. Per Lewis, tuttavia, questo era un fraintendimento dell’esperienza più profonda. Egli insiste che, se l’eccitazione fosse l’unico scopo, qualsiasi “thriller” per ragazzi sarebbe stato sufficiente. L’allievo, però, era convinto che gli elementi specifici del mondo dei Pellerossa – le piume, gli zigomi alti, i pantaloni a frange – fossero irrilevanti, persino una distrazione, e avrebbe preferito un pericolo più “ordinario” come un malvivente con un revolver.
Lewis rafforza questa distinzione con l’esempio di un adattamento cinematografico di Le miniere di Re Salomone. Alla fine del libro originale di Haggard, gli eroi sono intrappolati in una camera rocciosa circondati da re mummificati, un’immagine che evoca un senso di morte fredda e silenziosa. Il regista del film, ritenendolo “spento”, ha sostituito questa scena con un’eruzione vulcanica sotterranea e un terremoto. Per Lewis, questo ha rovinato la storia, perché se il solo scopo è l’eccitazione, allora un aumento del pericolo (bruciare vivi e essere schiacciati) dovrebbe essere migliore di un singolo pericolo prolungato. Invece, Lewis sentì di essere stato “ingannato”. La scena di Haggard gli dava un “senso della morte” molto specifico, diverso dalla semplice paura della morte, che “imprime un incantesimo silenzioso sull’immaginazione,” mentre il film “eccita un rapido battito dei nervi”. La suspense su come i personaggi sarebbero fuggiti era una parte minore dell’esperienza di Lewis; ciò che ricordava era la trappola stessa, non l’uscita.
Lewis porta un esempio autobiografico: pur avendo letto e amato innumerevoli romanzi, si dichiara refrattario a I tre moschettieri, comunemente ritenuto il romanzo più “eccitante” del mondo. La sua avversione deriva dalla “totale mancanza di atmosfera”. Il libro, per Lewis, è una successione implacabile di “avventure” senza un senso di luogo, tempo o riposo, e questo “non significa nulla” per lui. Se questo è ciò che si intende per “Romanzo”, allora Lewis lo aborrisce. Questa personale esperienza gli serve come prova che l’eccitazione non può essere l’unica fonte di piacere nelle storie, proprio come l’alcol non è l’unica fonte di piacere nel vino. Lewis sottolinea che l’eccitazione, intesa come suspense, è intrinsecamente effimera e deve svanire alla seconda lettura, poiché non si può essere realmente curiosi di ciò che è già successo.
Il piacere del “qualcosa d’altro” (immaginazione profonda/qualità). Il “qualcosa d’altro” è il cuore del piacere che Lewis cerca e apprezza nelle storie. Non si tratta solo del grado di pericolo, ma della qualità intrinseca del pericolo e del mondo in cui si manifesta. Lewis osserva che anche nella vita reale, diversi tipi di pericolo producono diverse paure: una paura gemella del timore (come il suono dei cannoni), una gemella del disgusto (serpente), paure tese e tremanti (cavallo pericoloso), o paure schiaccianti (malattia). Nell’immaginazione, dove la paura non si traduce in terrore paralizzante o azione, la differenza qualitativa è molto più forte.
Lewis fornisce esempi concreti di questa “qualità”. Il primo esempio: i giganti. Nella storia di Jack il cacciatore di giganti, ciò che conta non è solo che il protagonista superi il pericolo, ma che lo faccia contro i giganti. La loro “pesantezza, mostruosità, rozzezza” determina la qualità della risposta immaginativa, anche se il gigante fosse buono. La pericolosità è secondaria; la “gigantezza” è ciò che risuona. Il secondo esempio sono i pirati. Non sono solo nemici letali, ma “l’intera immagine del nemico completamente senza legge”, uomini con vestiti strani, orecchini, un passato misterioso e tesori sepolti in isole sconosciute. Sono quasi mitologici per il giovane lettore, la loro “pirateria” è una qualità assoluta e non negoziabile.
L’essere rinchiuso o escluso. La trappola nella grotta di Le miniere di Re Salomone o l’essere rinchiusi come in Poe, evocano claustrofobia. Al contrario, l’essere “escluso” sulla luna in I primi uomini sulla Luna di H.G. Wells non è solo la paura di morire di freddo, ma l’idea dell'”Infinito e finale Notte dello spazio”, che turba con il “vecchio timore di Pascal di quei silenzi eterni”. Questa è la funzione dell’arte: presentare ciò che le prospettive pratiche della vita reale escludono.
L’extraterrestre ne La guerra dei mondi. Per Lewis, ciò che conta è “l’idea di essere attaccati da qualcosa di completamente ‘esterno'”, il concetto di “extra-terrestre”, che si perde quando la storia si concentra solo sulla letalità marziana.
Nel saggio, C. S. Lewis evidenzia anche l’eccellenza suprema di Omero nel campo della narrazione. Prende come esempio la scena dello sbarco sull’isola di Circe nell’Odissea, in particolare la vista del fumo provenire da boschi inesplorati e l’incontro con Ermes, “il messaggero, l’uccisore di Argo”. Lewis sottolinea che sarebbe un anticlimax se tutti questi elementi servissero solo da preludio a un “ordinario rischio per la vita e l’incolumità fisica”. Invece, il pericolo che si cela in questa parte della storia, ovvero la trasformazione silenziosa, indolore e insopportabile in brutalità (riferendosi alla metamorfosi in animali operata da Circe), è considerato degno dell’ambientazione. Questo tipo di pericolo non è semplicemente un aumento del rischio fisico, ma una minaccia qualitativamente diversa che si addice all’atmosfera creata.
Viaggio spirituale in viaggio ad Arcturus. Lewis elogia David Lindsay, la cui opera trascende i pericoli fisici (che sono abbondanti) per viaggiare in un mondo di “pericoli spirituali”, una “passionante ricerca spirituale”. Lindsay è il primo a capire a cosa servono “altri pianeti” nella narrativa: non per la stranezza fisica o la distanza spaziale, ma per raggiungere “un’altra dimensione”, attingendo all’unico “altro mondo” reale che conosciamo, quello dello spirito.
Il “qualcosa d’altro” è un’esperienza che si approfondisce con la rilettura. I bambini, chiedendo la stessa storia più e più volte con le stesse parole, dimostrano di voler rivivere la “sorpresa ideale” – la “sorprendentezza intrinseca” dell’evento – liberati dallo shock della sorpresa reale. Questo è il momento in cui si possono assaporare le “vere bellezze” della storia.
Lewis critica l’atteggiamento “giocosamente apologetico” degli adulti verso i cosiddetti “libri per bambini”, ritenendola una convenzione sciocca. Egli afferma che “nessun libro vale davvero la pena di essere letto all’età di dieci anni se non vale ugualmente (e spesso molto di più) la pena di essere letto all’età di cinquanta”. L’unico tipo di opera immaginativa da cui dovremmo “crescere” sono quelle che non avremmo mai dovuto leggere.
Un altro grande malinteso riguarda il meraviglioso o il soprannaturale nelle storie. Contrariamente all’opinione, ad esempio, del Dr. Johnson che i bambini lo apprezzino per ignoranza, Lewis sostiene che non è necessario credere nelle fate, nei giganti o nei draghi per goderne; la credenza è irrilevante o addirittura uno svantaggio. I “miracoli” in una buona storia non sono mai “arbitrarie finzioni” per rendere la narrazione più sensazionale. La logica di una fiaba è “rigorosa come quella di un romanzo realistico, sebbene diversa”.
Lewis illustra questo punto con l’esempio del Signor Rospo ne Il vento tra i salici di Kenneth Grahame. La scelta di un rospo non è arbitraria, ma si basa sulla sua somiglianza grottesca con un certo tipo di volto umano, evocando la vanità. Il travestimento animale, sebbene “sottile”, è indispensabile. Se si tentasse di umanizzare i personaggi, si incontrerebbe un dilemma: sono adulti o bambini? Sono come bambini per la loro mancanza di responsabilità e cure domestiche (il cibo appare magicamente) e come adulti per la loro libertà di agire. Il libro, in un certo senso, presenta una “felicità in condizioni incompatibili” – la libertà dell’infanzia e quella della maturità – nascondendo la contraddizione attraverso la finzione che i personaggi non siano umani. Paradossalmente, anziché disabituarci alla realtà, questa “escursione nel prepostero” rafforza il nostro apprezzamento per la vita reale.
Lewis sostiene che le storie, anche quelle che sembrano “puramente sensazionali”, possono offrire “profonde esperienze” a chi non è letterato, agendo come una forma di poesia accessibile alle masse. La rilettura frequente è la prova che un lettore sta attingendo a questa esperienza più profonda, poiché l’eccitazione da sola non regge alla ripetizione. Nelle storie che contengono profezie che si avverano (come Edipo o Lo Hobbit), Lewis vede una rappresentazione di come “destino e libero arbitrio possano essere combinati”. La storia fa ciò che nessun teorema può pienamente fare: “ci pone davanti un’immagine di ciò che la realtà potrebbe benissimo essere in qualche regione più centrale”.
Lewis introduce la potente metafora della trama come una rete. Una storia, per essere tale, deve essere una serie di eventi, ma questa serie – la trama – è solo “una rete per catturare qualcos’altro”. Il “vero tema” è spesso “qualcosa che non ha sequenza, qualcosa di diverso da un processo e molto più simile a uno stato o una qualità”. Esempi di questi “stati” includono la “gigantezza”, l'”alterità” o la “desolazione dello spazio”. Tuttavia, questa “rete molto raramente riesce a catturare l’uccello”. Lewis elogia autori come E.R. Eddison, Mr. de la Mare e David Lindsay per essere riusciti a incarnare il loro tema attraverso la storia, spesso attraverso lo stile o la costruzione di mondi spirituali.
Infine Lewis propone che questa tensione intrinseca nel cuore di ogni storia, tra il tema e la trama, costituisce la sua “principale somiglianza con la vita”. Sia nella vita che nell’arte, cerchiamo di afferrare uno “stato” ma troviamo solo una successione di eventi che non lo incarnano mai pienamente. L’idea grandiosa di un’avventura, come la ricerca di Atlantide, tende a perdersi nell’eccitazione una volta che il viaggio ha inizio, proprio come l’idea di avventura svanisce nella quotidianità della vita reale. Nonostante ciò, l’arte, a differenza della vita, può riuscire “molto, molto vicino” a catturare quell'”uccello” non successivo nella sua rete di momenti. Per Lewis, questo sforzo è “ben degno di essere fatto”.
Lewis lancia anche un avvertimento riguardo alla tecnologia e alla sua potenziale influenza sulla narrativa. Se la scienza un giorno permettesse di raggiungere la Luna, quel viaggio reale non soddisferebbe l’impulso che oggi cerchiamo di gratificare scrivendo storie su di essa. La Luna reale sarebbe “profondamente e mortalmente come qualsiasi altro luogo,” portando solo freddo, fame e pericolo ordinari. La sua “stranezza” svanirebbe, a meno che non si fosse capaci di trovarla nel proprio “cortile di casa”. Lewis cita il detto: “Chi porta a casa la ricchezza delle Indie deve portare con sé la ricchezza delle Indie”.
Il saggio di Lewis è una profonda difesa del valore intrinseco della “storia” e del suo potenziale di offrire un piacere che va ben oltre la semplice suspense. È un invito a considerare la capacità della narrativa di trasportarci in “altri mondi” non solo geograficamente o fisicamente diversi, ma spiritualmente e qualitativamente distinti. Attraverso esempi che spaziano da Omero alle fiabe per bambini, Lewis ci sfida a riconoscere la profondità e la complessità delle esperienze che le storie possono mediare, soprattutto per coloro che potrebbero non avere altri mezzi per accedere al mondo immaginativo. La sua visione eleva il ruolo del narratore e del lettore, suggerendo che il piacere più duraturo e significativo si trova non nell’adrenalina del momento, ma nell’immersione in un’atmosfera, una qualità, un “tema” che risuona con aspetti permanenti dell’esperienza umana.