Le “Note autobiografiche” di James Baldwin non sono solo un resoconto della sua vita, ma una meditazione sulla natura della scrittura, sull’identità dell’artista e sulle sfide uniche affrontate da uno scrittore nero nell’America del XX secolo. Attraverso il prisma della sua esperienza personale, Baldwin esplora la genesi della sua vocazione, le influenze che lo hanno plasmato e l’inevitabile intreccio tra la sua vita privata e la sua missione artistica.
James Baldwin è nato ad Harlem trentuno anni prima della stesura di queste note. La sua infanzia, che descrive come una “solita cupa fantasia”, non è qualcosa che vorrebbe rivivere. Fin da piccolo, la lettura e la scrittura furono le sue compagne costanti. “Ho cominciato a pensare romanzi più o meno nel momento in cui ho imparato a leggere”. Con una mano accudiva i numerosi fratelli e sorelle, nati dall’ “esasperante e misteriosa abitudine di sua madre di avere bambini”, e con l’altra teneva un libro, rileggendo instancabilmente classici come La capanna dello zio Tom e Racconto di due città. Leggeva praticamente “tutto ciò che riusciva a mettere le mani addosso”, ad eccezione della Bibbia, probabilmente perché era l’unico libro che gli veniva consigliato di leggere.
La sua precoce inclinazione alla scrittura si manifestò con un primo trionfo professionale, o almeno il primo sforzo ad essere pubblicato, all’età di circa dodici anni: un racconto sulla rivoluzione spagnola che vinse un premio in un giornale ecclesiastico di breve durata. Ricorda che la storia fu censurata dalla redattrice, sebbene non ricordi il motivo, e ne fu indignato. Oltre ai racconti, scrisse anche opere teatrali e canzoni, per una delle quali ricevette una lettera di congratulazioni dal sindaco La Guardia, e poesie, di cui, con ironia, preferisce non parlare. Sua madre era entusiasta di tutte queste attività, ma suo padre, che voleva che diventasse un predicatore, non lo era. A quattordici anni divenne predicatore, ma a diciassette smise, e poco dopo lasciò casa.
Dopo aver lasciato casa, Baldwin lottò con il mondo del commercio e dell’industria per un periodo indefinito, scherzando sul fatto che forse erano loro a lottare con lui. Intorno ai ventuno anni, aveva scritto abbastanza di un romanzo per ottenere una Saxton Fellowship. Tuttavia, a ventidue anni, la borsa di studio che aveva ottenuto per il romanzo era finita e il libro si rivelò invendibile. Iniziò a fare il cameriere in un ristorante del Village e a scrivere recensioni di libri, che si concentravano prevalentemente sul “problema dei negri”, un argomento per il quale il colore della sua pelle lo rendeva “automaticamente un esperto”. Successivamente, realizzò un altro libro in collaborazione con il fotografo Theodore Pelatowski, sulle chiese-vetrina di Harlem, che ebbe lo stesso destino del primo: una borsa di studio (una Rosenwald Fellowship), ma nessuna vendita.
A ventiquattro anni, Baldwin decise di smettere di recensire libri sul “problema dei negri”, che, a quel punto, era “solo leggermente meno orribile sulla carta di quanto lo fosse nella vita”. Fece i bagagli e partì per la Francia, dove, in qualche modo, riuscì a terminare Go Tell It on the Mountain. Questo periodo di lotte e fallimenti iniziali fu fondamentale per la sua formazione come scrittore, spingendolo a cercare una nuova prospettiva.
Baldwin riflette poi nelle sue Note sulla condizione universale dello scrittore: “Ogni scrittore, suppongo, sente che il mondo in cui è nato non è altro che una cospirazione contro la coltivazione del suo talento”. Questa visione, sebbene pessimista, ha una sua fondatezza. Tuttavia, è proprio l'”indifferenza spaventosa” con cui il mondo guarda al talento dell’artista che lo “costringe a rendere il suo talento importante”. Questo paradosso implica che il dolore e l’aiuto nella vita di un artista sono indissolubilmente legati; si è aiutati in un certo modo solo perché si è stati feriti in un certo modo. La crescita di uno scrittore è un progresso da “un enigma all’altro”, o addirittura da “un disastro all’altro”.
Riguardo alle sue influenze, Baldwin azzarda alcune ipotesi senza esserne del tutto certo: la Bibbia di Re Giacomo, la retorica della chiesa-vetrina, “qualcosa di ironico e violento e perpetuamente sottostimato nel linguaggio negro”, e “qualcosa dell’amore di Dickens per la bravura”. Ma, alla fine, la cosa più difficile e gratificante della sua vita è stata “il fatto di essere nato Negro e di essere stato costretto, perciò, a stabilire una sorta di tregua con questa realtà”. Questa “tregua” è il massimo a cui si possa sperare, e definisce una parte fondamentale della sua identità e del suo percorso artistico.
Una delle maggiori difficoltà nell’essere uno scrittore nero, come sottolinea Baldwin, non è che si abbia una sorte peggiore degli altri, ma che il “problema dei negri” sia “scritto così ampiamente” e spesso “così male”. L’abbondanza di informazioni porta tutti a considerarsi informati, e queste informazioni tendono a rafforzare le “attitudini tradizionali” – “A favore o contro” – entrambe le quali hanno causato a Baldwin grande dolore come scrittore.
Per Baldwin, il compito dello scrittore è “esaminare le attitudini, andare sotto la superficie, attingere alla fonte”. Da questo punto di vista, il “problema dei negri” è quasi inaccessibile. Egli arriva a dire che il prezzo che un nero paga per diventare eloquente è “trovarsi, alla fine, senza nulla di cui essere eloquente”. Cita Calibano sottomesso a Prospero in La tempesta di Shakespeare: “Tu mi hai insegnato il linguaggio, e il mio guadagno è che so come imprecare”.
L’attività sociale generata da questo problema impone a bianchi e neri la necessità di “guardare avanti, di lavorare per realizzare un giorno migliore”. Sebbene questo sia positivo e abbia permesso il progresso dei neri, Baldwin afferma che “gli affari sociali non sono, generalmente parlando, la principale preoccupazione dello scrittore”. È “assolutamente necessario che egli stabilisca tra sé e questi affari una distanza che permetta, almeno, la chiarezza”. Per guardare avanti in modo significativo, è necessario “prima poter dare uno sguardo approfondito indietro”. Tuttavia, né bianchi né neri hanno il minimo desiderio di guardare indietro nel contesto del problema razziale, per eccellenti ragioni proprie. Baldwin crede fermamente che “il passato è tutto ciò che rende il presente coerente” e che “il passato rimarrà orribile esattamente finché ci rifiuteremo di valutarlo onestamente”.
Il momento più importante nello sviluppo di Baldwin come scrittore avvenne quando fu costretto a riconoscere di essere una sorta di “bastardo dell’Occidente”. Seguendo la linea del suo passato, non si trovò in Europa ma in Africa. Questo significava che portava a Shakespeare, Bach, Rembrandt, alle pietre di Parigi, alla cattedrale di Chartres e all’Empire State Building “un atteggiamento speciale”. Queste non erano “realmente le sue creazioni”, non contenevano la sua storia; avrebbe potuto cercarvi invano per sempre un riflesso di sé. Si sentiva un “intruso”; questa non era la sua eredità.
Allo stesso tempo, non aveva “nessun’altra eredità che potesse sperare di usare” – era certamente “inadatto alla giungla o alla tribù”. La sua soluzione fu radicale e necessaria: avrebbe dovuto “appropriarsi di questi secoli bianchi”, renderli suoi, accettare il suo “atteggiamento speciale”, il suo “posto speciale in questo schema” – altrimenti non avrebbe avuto “alcun posto in alcun schema”. La parte più difficile fu dover ammettere qualcosa che aveva sempre nascosto a se stesso, un prezzo che il nero americano ha dovuto pagare per il suo progresso pubblico: che “odiava e temeva i bianchi”. Questo non significava che amasse i neri; al contrario, li disprezzava, forse “perché non erano riusciti a produrre Rembrandt”. In effetti, “odiava e temeva il mondo”. Questa profonda lacerazione interiore, che gli conferiva al mondo un “potere del tutto assassino” su di lui, lo condannava a un “limbo autodistruttivo” in cui non avrebbe mai potuto sperare di scrivere.
Il fulcro della filosofia di scrittura di Baldwin è chiaro e intransigente: “Si scrive da una cosa sola: la propria esperienza”. Tutto dipende da “quanto implacabilmente si forza da questa esperienza l’ultima goccia, dolce o amara, che essa possa dare”. Questa è “l’unica vera preoccupazione dell’artista: ricreare dall’ordine della vita quell’ordine che è arte”. La difficoltà per lui, come scrittore nero, era che la sua situazione sociale, con le sue “tremende esigenze e i pericoli molto reali”, gli impediva di esaminare la propria esperienza troppo da vicino.
Questa tesi si estende alla ragione per cui la prosa scritta dai neri è stata generalmente “pallida e dura”, nonostante le “enormi risorse del linguaggio e della vita dei negri, e nonostante l’esempio della musica negra”. Baldwin non ha scritto a lungo sull’essere nero perché si aspetta che quello sia il suo unico soggetto, ma “solo perché era la porta che dovevo sbloccare prima di poter sperare di scrivere di qualsiasi altra cosa”. Egli insiste che il “problema dei negri in America non può nemmeno essere discusso in modo coerente senza tenere a mente il suo contesto”: la storia, le tradizioni, i costumi, le assunzioni morali e le preoccupazioni del Paese, in breve, “il generale tessuto sociale”. Nonostante le apparenze, nessuno in America sfugge ai suoi effetti e tutti ne portano una certa responsabilità. Baldwin trova conferma di ciò nella “schiacciante tendenza a parlare di questo problema come se fosse una cosa a sé stante”. Tuttavia, vede i primi segni di una ricerca “più genuinamente penetrante” nelle opere di Faulkner, in Robert Penn Warren e, soprattutto, nell’avvento di Ralph Ellison, il primo romanziere nero che ha letto a utilizzare “brillantemente, nella lingua, parte dell’ambiguità e dell’ironia della vita negra”.
Baldwin conclude le sue note con un’introspezione sui suoi interessi e valori personali. Oltre a un “morboso desiderio di possedere una macchina da presa da sedici millimetri e fare film sperimentali”, egli ama mangiare e bere, con la malinconica convinzione di non aver quasi mai mangiato abbastanza a causa della preoccupazione per il pasto successivo. Ama discutere con persone che non sono in disaccordo con lui troppo profondamente e ama ridere. Non gli piace la bohéme o i bohémien, le persone il cui scopo principale è il piacere, e coloro che sono “seri su qualsiasi cosa”. Non gli piacciono le persone che lo apprezzano perché è nero, né quelle che trovano nello stesso “incidente” motivi di disprezzo.
Il suo amore per l’America è profondo: “Amo l’America più di ogni altro Paese al mondo, ed esattamente per questa ragione, insisto sul diritto di criticarla perpetuamente”. Crede che “tutte le teorie siano sospette, che i principi più nobili possano dover essere modificati, o possano anche essere polverizzati dalle esigenze della vita”. Pertanto, ognuno deve trovare il proprio “centro morale” e muoversi nel mondo sperando che questo centro guidi correttamente. Ha molte responsabilità, ma nessuna maggiore di questa: “durare, come dice Hemingway, e portare a termine il mio lavoro”.
James Baldwin si propone due obiettivi interconnessi che definiscono la sua intera esistenza e la sua arte: “Voglio essere un uomo onesto e un bravo scrittore”. Questa dichiarazione racchiude la sua filosofia: la scrittura non è solo una professione, ma una via per la verità, per la comprensione di sé e del mondo, e un impegno incessante per dare ordine al disordine dell’esperienza umana, specialmente in un contesto così complesso e doloroso come quello dell’identità nera in America. Le “Note autobiografiche” di Baldwin sono, quindi, non solo il racconto della nascita di un artista, ma anche il manifesto di una vita dedicata alla ricerca intransigente dell’autenticità attraverso la parola scritta.